Omelia nella 12 domenica per annum
«Non abbiate paura!»

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 Dal Vangelo secondo Matteo 10,26-33

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. 
E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo.
Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».
 
 
Il Vangelo di questa XII domenica invita a non temere.
      «Non abbiate paura degli uomini». 
      «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo».
      «Non abbiate dunque paura».
[A solo titolo informativo si pensi che nella Sacra Scrittura il concetto di “non temere” – “non avere paura” ricorre 365volte! Una volta per ogni giorno dell’anno].
 
Matteo scandisce queste esortazioni come fossero l’antifona di un salmo.
La comunità alla quale l’evangelista rivolgeva le sue catechesi era ancora turbata e addolorata dal ricordo delle persecuzioni rivolte ad alcuni dei suoi componenti. Fin dal suo sorgere fu sottoposta a contestazione da parte dei farisei, degli scribi e delle autorità religiose giudaiche. Poi dovette far di conto con gli imperatori di Roma almeno fino a Costantino. E Matteo intese rassicurare tutti facendo appello alle parole di Gesù che mai abbandona i suoi discepoli.
 
Per questi ricordi la paura di cui parla il Vangelo non è la paura che ogni uomo avverte di fronte agli avvenimenti imprevisti della vita che sono tanti e diversi come, a esempio, il timore per la propria sicurezza e dei propri cari, la paura di non farcela nella sofferenza, e soprattutto la paura della morte. La paura di cui qui parla il Vangelo è quella che accompagna i cristiani nel corso della loro missione evangelizzatrice e di testimonianza cristiana. Non si tratta di una paura irragionevole; essa è fondata sull’esperienza storica della pessima accoglienza che i contemporanei riservarono a Gesù e agli apostoli e che è continuata attraverso i secoli fino a oggi.
 
I tre inviti a non temere sono correlati a efficaci contrapposizioni:
      nascosto/svelato,
      segreto/conosciuto,
      tenebre/luce,
      corpo/anima,
      riconoscere/rinnegare.
 
Nel primo detto il discepolo è invitato a non temere coloro che lo perseguitano, perché «nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto». Il detto significa che l’innocenza dei discepoli ora perseguitati apparirà un giorno con chiarezza ed essi saranno pienamente riabilitati.
 
Nel secondo detto Gesù ha invitato i discepoli a proclamare nella luce ciò che egli ha detto loro e «quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze». Dopo l'evento pasquale tutto ciò che il Giovane Rabbi di Nazaret aveva insegnato ai discepoli anche riservatamente essi avrebbero dovuto proclamarlo pubblicamente e alla luce del giorno con franchezza e coraggio.
 
Nel terzo detto Gesù invitò i discepoli a non temere coloro «che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima», ma «piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo». Gesù prospettò ai discepoli la possibilità di una morte violenta, ma li esortò a non temere gli uomini che possono al massimo privarli della vita fisica. Avrebbero dovuto temere piuttosto Dio che nel giudizio potrebbe condannarli alla dannazione eterna. La vita terrena per Gesù non è nulla in confronto alla vita imperitura che il Padre darà in cielo.

Infine Gesù esortò ad avere fiducia nella provvidenza. Gesù assicurò che neppure uno di due passeri, per poco che possano valere, «cadrà a terra senza il volere del Padre vostro». I discepoli non devono perciò aver paura, perché essi valgono più di molti passeri. Gesù ricorda, inoltre, ai discepoli che perfino i capelli del loro capo sono tutti contati. Ciò significa che anche gli aspetti più secondari e a prima vista indifferenti della vita umana sono conosciuti e guidati da Dio a un fine di bene e di salvezza.
 
Per Gesù vi è una sola certezza: Dio è Padre e ha premura per tutti i suoi figli: essi non potranno subire alcun danno senza che egli lo permetta, e qualora lo permettesse ciò è certamente per poter conferire loro un bene maggiore.
 
Cari Amici,
«Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli». È richiesta a ciascuno di noi la testimonianza cristiana. Non vergogniamoci di essere cristiani. Annunciamo la bellezza di essere cristiani. La vita cristiana vissuta nella fede è una cosa grande! La vita cristiana è una vita vera e bella. La vita cristiana è bella perché vera e vera perché si esprime nella bellezza. A ogni cristiano è richiesto una gioiosa testimonianza cristiana non solo nelle Chiese, non nelle sacrestie, non solo nei nostri gruppi, comunità o associazioni, ma nella piazza, al bar, in ufficio. Rinnegare Gesù significa rifiutare il progetto divino della salvezza.
 
La fede deve avere il coraggio di contagiare la vita. Il dramma della nostra fede è proprio questo. Quello di essere timidamente rintanati in angusti spazio del privato e del sacro. Paolo VI denunciò con cuore appassionato che «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca», dove il termine cultura è da intendersi come l’insieme delle realtà esperienziali della vita. La fede riguarda la vita quotidiana nella trama complessiva degli avvenimenti, personali e colletti­vi, che la caratterizzano.
 
C'è strabismo quando si guarda nello stes­so tempo in direzione diverse. Soffre di strabi­smo il cristiano che nella vita privata proclama il suo credo, va a Messa, prega  … ma nella sua vita quotidiana agisce etsi Deus non daretur: come se Dio non esistesse.  L’esperienza di credente deve essere una cosa sola con la prassi quotidiana nell'impegno storico, culturale, politico, economico, affettivo. Nella vita di fede lo strabismo è una malattia pe­ricolosa. Non si può fare riferimento a Dio solo in alcuni momenti della vita quotidiana.
 
Nei confronti di Dio la paura non ha ragione di essere! Non si deve avere paura di essere cristiani, anche se la testimonianza cristiana esige coraggio e coerenza.
Uno dei temi di riflessione di questi ultimi tempi è quella relativa allo smarrimento del senso religioso, del calo dei fedeli frequentanti l’eucarestia e i sacramenti in genere, lo scarso significato che i cristiani danno alla Parola di Dio, l’indifferenza nei confronti del magistero della Chiesa, l’assenza di una aperta e convita testimonianza cristiana.  
 
Non v’è dubbio che dietro tutto questo vi sia una generale crisi di fede che attanaglia soprattutto il mondo occidentale. Qualche teologo pastoralista attribuisce a questa disaffezione e abbandono al fatto che si è avuto un cristianesimo di devozione per molti secoli e non un cristianesimo alimentato dalla Parola di Dio. Un cristianesimo di devozione e di riti che avevano molta importanza nella vita delle persone, ma che non è mai stato e non è, ora, sufficiente.
 
Mentre si fa urgente e indispensabile la ripresa di un’autentica, chiara, pratica evangelizzazione occorre recuperare il senso vivo della testimonianza da parte dei credenti. Al contrario l’impressione è quella secondo cui coloro che credono vivano la propria fede dentro un processo individuale, intimistico sottratto alla vista dei più. Insomma chi crede interiorizza la propria fede in termini personalistici. In tal modo che avremo sì delle comunità cristiane vive, ma certamente minoritarie.
 
Allora, mentre si irrobustisce la propria fede, è indispensabile assumere un impegno di aperta e pubblica testimonianza.
Una testimonianza gioiosa e felice.
Una testimonianza del Dio dell’amore, del Dio della verità, del Dio della vita, di un Dio vicino all’uomo, a ogni uomo.

E non soltanto in esecuzione rigida di leggi e comandamenti, ma prima di tutto come esperienza di bellezza profonda e di pace spirituale.
Da tutto questo nasce il desiderio di seguire concretamente la volontà di Dio anche con scelte e faticose rinunce.
La fede cristiana ci vuole avvolgere di una bellezza che ci spinga a ripensare la nostra vita e riorientarla a Dio.
Senza questa adesione profonda e convinta a Dio e alla sua Parola la vita cristiana evaporerà.
 
Dobbiamo tornare a testimoniare con audacia una vita cristiana bella e luminosa; ad annunciare e testimoniare un “Dio bello” che ama ogni uomo che viene in questo mondo; un Dio che per amore ha sacrificato il proprio Figlio, il quale ha dato la sua vita “solo per amore”!  
Tornare a un Dio che amando l’uomo, dall’uomo attende e si aspetta una risposta d’amore:
«quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze». 
 
 
O Dio, che affidi alla nostra debolezza
l’annunzio profetico della tua parola,
sostienici con la forza del tuo Spirito,
perché non ci vergogniamo mai della nostra fede,
ma confessiamo con tutta franchezza
il tuo nome davanti agli uomini,
per essere riconosciuti da te nel giorno della tua venuta.


 

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