Il prete vecchietto, dove lo metto?

<< Torna indietro

 

Qualche anno fa un orecchiabile motivetto cantava: “Il vecchietto dove lo metto?”.  La domanda mi è stata riproposta da un sacerdote di 76 anni in altri termini, ma identica nella sostanza: “Si può morire in nome del diritto canonico?”, mi ha domandato. Lì per lì sono rimasto basito e sorpreso; pensavo allo scherzo di un prete buono, simpatico, un po’ burlone. I suoi due occhi blu ti scavano dentro quando ti guarda. Di fronte al mio sorriso egli insistette: “Si può morire in nome del diritto canonico?”.
 
Ho immediatamente realizzato che egli non stava scherzando affatto. E ho capito. Aveva compiuto 75 anni d’età; aveva presentato al Vescovo la rinuncia all’ufficio di parroco e il Vescovo gliela aveva accettata. Lo aveva inviato come “collaboratore pastorale” di un parroco a cui erano state affidate 9 parrocchie.
 
“Si può morire in nome del diritto canonico?”. Il Don che continuava a fissarmi con i suoi occhi azzurri è persona, grazie a Dio, in perfetta salute fisica, psicologicamente equilibrata, pronta di riflessi, agile nei movimenti. Guida la macchina con una sicurezza invidiabile. Insomma un 76.enne che potrebbe dare certamente dei punti a un 60.enne!
Era chiara la sua insinuazione. Il canone 538 §3 del Codice di Diritto Canonico prescrive che, compiuti i 75 anni, il parroco è invitato (rogatur) a presentare la rinuncia (renuntiationem) all’ufficio al Vescovo diocesano, il quale, considerata ogni circostanza di persona e di luogo, decide (decernat) se accettarla o differirla. Il Vescovo diocesano deve provvedere in modo adeguato al sostentamento e alla abitazione del rinunciante (renuntiantis), attese le norme emanate dalla Conferenza Episcopale.
 
Ecco la “legge” che “fa morire di Diritto Canonico”. Il prete mio interlocutore si sentiva morire per colpa di una legge, che come si vede non è vincolante; al Vescovo spetta di considerare “ogni circostanza di persona e di luogo”.
La conversazione e il dialogo con il ”Don” si è fatto serrato e, intelligentemente egli mi provocava con argomentazioni che dal punto di vista umano e manegiariale non facevano una grinza (anche secondo me). Egli, infatti, argomentava:
1.      I preti sono sempre più pochi
2.      I vescovi accorpano parrocchie, affidando 4,6,8 e persino più di 10 parrocchie o più a un solo parroco.
3.   I preti che hanno compiuto 75 anni vengono nominati “collaboratori pastorali” e inviati presso una di queste nuove aggregazioni parrocchiali, spesso senza alcun incarico preciso, ma alla mercé del pluri-parrocco che ne dispone inviando il  “collaboratore pastorale”  dove ve ne sia bisogno.
4.    Per raggiungere tali destinazioni il  “collaboratore pastorale” deve far uso della propria autovettura, percorrere i km. necessari, esercitare il ministero per cui è stato inviato, e tornarsene a casa, indisturbato ospite: egli non è il parroco!
 
Il “Don” mio interlocutore, mentre snocciolava tutte queste considerazioni, si era fatto triste in viso, e continuava come un fiume in piena, lucidamente, la sua riflessione. E si chiedeva, retoricamente: Che senso ha accettare le dimissioni di un parroco 75.enne che gode ancora di piena salute ed equilibrio fisico, privarlo di ogni responsabilità pastorale, mandarlo a “fare il chierichetto” di un confratello più giovane con più parrocchie, il quale lo costringe a percorrere 2,4,6,8, km in macchina (che prima non percorreva) per andare a celebrare una messa, ascoltare delle confessioni, quando avrebbe potuto continuare la sua opera di parroco, o di amministratore parrocchiale, magari in una parrocchia più piccola?
 
E argomentava: privare una comunità parrocchiale del parroco vuol dire impoverire quella comunità, che in ogni caso soffrirà la sindrome dell’abbandono. E continuava: spesso si usano criteri che nel mondo ecclesiale non pagano. Nel mio caso – diceva – io avrei potuto continuare a avere la cura pastorale della mia parrocchia con un deciso minor impiego di forze fisiche di quelle che mi richiede la collaborazione pastorale presso …  In quella Unità Pastorale spesso devo fare più di 6 km in macchina per raggiungere la destinazione indicatami dal parroco. Celebro, come un impiegato presta un sevizio, e torno a casa mia quasi sempre senza neppure scambiare una parola con chi “cerca il parroco”.
 
Ma il ragionamento del “Don” si è fatto più onnicomprensivo e non si è limitato alla propria situazione; osservava, infatti: nel momento in cui le nostre comunità sono contraddistinte da una “apostasia crescente” la sottrazione del parroco da una parrocchia contribuisce ad allentare la vita cristiana delle comunità che si sentono private di un sacerdote stabile. Purtroppo questa sarà presto la situazione di domani, ma fin che ci sono ultra settantacinquenni  in grado di assicurare un servizio pastorale degno d questo nome, perché declassarli a “chierichetti” di un parroco con più parrocchie che li fa girare come trottole ora-qua-ora-là? Si potrebbe nominarlo amministratore parrocchiale al fine di garantire una reciproca libertà sia per il Vescovo sia per il prete anziano che entrerebbe così anche canonicamente in un cambiamento di status e che si sentirebbe immediatamente più libero qualora non potesse continuare la sua attività pastorale. E il Vescovo potrebbe operare con altrettanta libertà qualora dovessero emergere elementi che, a quel punto, suggerirebbero un vero cambio. Il discorso non deve essere generalizzato. Lo stesso Diritto Canonico esprime chiaramente il concetto: “considerata ogni circostanza di persona e di luogo, [il Vescovo] decide (decernat) se accettarla o differirla [la presentazione della rinuncia].
 
Mi ha molto impressionato la lucidità con cui il “Don 76.enne” mio interlocutore ha fatto lettura della situazione odierna:
1.      L’innegabile calo numerico dei sacerdoti
2.      La considerazione della persona del parroco dimissionario. Perché valutarla a norma di anagrafe, e non tenendo, invece, conto della situazione oggettiva di quanto il sacerdote possa ancora dare e fare. Tra l’altro oggi la vita di una persona, e quindi anche del prete, è mediamente più lunga del passato.
3.   Ripensare alla collocazione spesso svilente e avvilente di un sacerdote che, pur sentendosi ancora in forze e in perfetto equilibrio psicologico, si sente costretto a dover ridimensionare l’attività pastorale e fungere da collaboratore … smarrendo una identità che per decenni l’aveva caratterizzato. E’ sempre un momento difficile dover lasciare la comunità, una chiesa, un luogo dove si è rimasti per lungo tempo, dover traslocare e ridimensionare l’attività pastorale.
4.   Considerare con maggior sollecitudine pastorale la rimozione del sacerdote da una comunità parrocchiale che, spesso improvvisamente, si vede “portare via” un sacerdote ancora in salute e in forze … fisiche e psichiche! 
 
Insomma, ho ricevuto una lezione di vita pastorale difficilmente immaginabile.
Non v’è dubbio che l’età del passaggio dalla attività pastorale alla quiescenza debba essere preparata non solo logisticamente, ma direi – e soprattutto – spiritualmente e psicologicamente! Papa Francesco in un suo proprio documento dal titolo inequivocabile “Imparare a congedarsi” del 12 febbraio 2018, ha scritto: “La conclusione di un ufficio ecclesiale deve essere considerata parte integrante del servizio stesso, in quanto richiede una nuova forma di disponibilità … Chi si prepara a presentare la rinuncia ha bisogno di prepararsi adeguatamente davanti a Dio, spogliandosi dei desideri di potere e della pretesa di essere indispensabile. Questo permetterà di attraversare con pace e fiducia tale momento, che altrimenti potrebbe essere doloroso e conflittuale. Allo stesso tempo, chi assume nella verità questa necessità di congedarsi, deve discernere nella preghiera come vivere la tappa che sta per iniziare, elaborando un nuovo progetto di vita, segnato per quanto è possibile da austerità, umiltà, preghiera di intercessione, tempo dedicato alla lettura e disponibilità a fornire semplici servizi pastorali”.
 
Pur tuttavia gli elementi fornitimi dal mio interlocutore sono tali da non poter essere disattesi a norma di una interpretazione “rigida” del Diritto Canonico, che – al contrario – mostra una vera possibilità di discernimento.