«Un cuore che vede»

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«Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro». Questa è l'eredità che Gesù ha lasciato l'umanità. Per comprendere la rivoluzione che il Giovane Rabbi di Nazaret ha voluto introdurre nella storia dobbiamo meditare con attenzione il racconto del «Buon Samaritano». In esso è descritto l'atteggiamento che dobbiamo aquisire per vivere una autentica vita cristiana. Gesù nel Vangelo parla di compassione. Compassione vuol dire “avere-passione-con” o “avere-sofferenza-con”; vuol dire patire, soffrire con chi patisce e soffre. Nel Vangelo tutto parla di pietà, di compassione, intesa come non come compatimento, ma come patimento condiviso, preso su di sé per essere di sollievo, di conforto, di aiuto, facendosi carico del peso dell’altro, ascoltando e intuendo anche i desideri non espressi, anche i silenzi. Infatti la compassione di Dio è mettersi nella situazione dell’altro con il suo cuore di Padre.

«Il programma del cristiano — il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù — è «un cuore che vede». Questo cuore vede dove c'è bisogno di amore e agisce in modo conseguente». (cfr Deus caritas est, 31).

 

Lungo il ciglio di una strada solitaria fu lasciato «mezzo morto» un «un uomo [che] scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti». Un essere umano derubato, aggredito, spogliato di tutto, abbandonato al suo destino. Non sappiamo chi era. Solo un "uomo". Potrebbe essere qualsiasi di noi. Ogni essere umano vittima della violenza, della malattia, dalla sfortuna o della disperazione. In questo ferito senza nome e senza patria Gesù ha concentrato situazione di tante vittime innocenti ingiustamente maltrattate e abbandonate lungo i fossi di molte strade della nostra storia.


All'orizzonte apparvero due viandanti: prima un prete e poi un levita.

Il testo osserva che «per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada», come se nulla avesse a che fare in quel posto un uomo dedicato solo al culto. Il suo ministero non era quello di soccorrere i feriti abbandonati lungo i cigli delle strade. Il suo posto era il tempio. Il suo servizio le celebrazioni sacre. Infatti quando raggiunse l'altezza del ferito, «lo vide, e passò oltre».

 

«Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre».

Entrambi appartenevano al mondo rispettato della religione ufficiale di Gerusalemme. I due agirono in modo identico: videro il ferito, diedero uno sguardo e passarono oltre. I due chiusero gli occhi e il cuore; quell’uomo non esisteva per loro; infatti tirarono dritto senza fermarsi. Nel racconto di Gesù c’è la critica radicale nei confronti di tutte le religioni che non sono in grado di generare nei propri membri “un cuore che vede”, un cuore compassionevole. Che senso ha una religione così poco umana? Quando la religione non è centrata in un Dio amico della vita e Padre della sofferenza, il culto sacro può diventare un'esperienza lontana dalla vita quotidiana, preserva dal contatto diretto con la sofferenza della gente impedendoci di reagire di fronte alle ferite che vediamo lungo i bordi della strada della vita.


Lungo la strada transitò un terzo personaggio: «un Samaritano», uno che apparteneva a un popolo disprezzato dai giudei perché considerato alla stregua dei gentili. Non era né sacerdote né Levita. Non apparteneva alla religione del Tempio. Non apparteneva nemmeno al popolo eletto di Israele. Ma appena scorto il ferito, «passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui». E per quello sconosciuto fece tutto il possibile per salvarlo, per riscattarlo alla vita e ripristinare la sua dignità. Questa è la dinamica che Gesù volle introdurre nel mondo.

Nella parabola del buon Samaritano «il concetto di prossimo viene universalizzato e rimane tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini, non si riduce all'espressione di un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui ed ora». (cfr Deus caritas est, 15).


La prima cosa è quella di non è chiudere gli occhi. Occorre saper guardare attentamente e responsabilmente la sofferenza e colui che soffre. Questo sguardo può liberarci dall'egoismo e dall'indifferenza che ci permetterebbero di vivere con la coscienza tranquilla e l'illusione di innocenza in mezzo a tante vittime innocenti. Allo stesso tempo, "commuoverci" e lasciare che la sofferenza di chi soffre faccia soffrire anche a noi.

La cosa decisiva è quella di reagire e "avvicinarci" alla sofferenza non per chiedersi se si abbia o non si abbia un obbligo di intervenire e offrire aiuto, ma per scoprire da vicino che è un essere umano colui ch
e chiede che gli sia versato «sulle sue ferite l'olio della consolazione e il vino della speranza» (Prefazio comune VIII).
Le nostre azioni concrete riveleranno la nostra qualità umana.

Ha ricordato Papa Francesco
«la misericordia senza le opere è morta in sé stessa. E’ proprio così! Ciò che rende viva la misericordia è il suo costante dinamismo per andare incontro ai bisogni e alle necessità di quanti sono nel disagio spirituale e materiale. La misericordia ha occhi per vedere, orecchi per ascoltare, mani per risollevare…». (Udienza giubilare 30 giugno2016)

 

Tutto questo non è teoria. Il samaritano del racconto evangelico non si sentì obbligato di rispondere a un determinato codice religioso o morale. Semplicemente rispose alla situazione del ferito prodigandosi in ogni modo per alleviare le sue sofferenze e ripristinare la sua vita e la sua dignità di persona umana. Gesù affida a ciascuno di noi, come imperativo assoluto, oggi queste parole: «Va’ e anche tu fa’ così».

Cari Amici, il messaggio di Gesù è valido solo se porta a una «prassi» ispirata dall’amore. Il messaggio di Gesù è valido solo se porta a una «prassi» ispirata dall’amore. Chi ama Dio non può prescindere dall’amore del prossimo, ma si può amare veramente il prossimo solo se si cerca in lui il volto di Dio.