Sinodo: la funzione consultiva dei fedeli laici

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Il prossimo autunno inizierà il primo anno di celebrazione del Sinodo sul tema della Sinodalità. Desidero proporre una serie di riflessioni che frendano tutti partecipi della Assise importantissima che sarà celebrata con la partecipazione per la prima volta di laici battezzati, uomini e donne. In questo periodo, in cui - forse - abbiamo più tempo a disposizione, preoccupiamoci di conoscere il grande tema della sinodalità della e nella Chiesa. NON SPRECHIAMO questa grande occasione di sentirci ed essere Chiesa.
 

In una Chiesa sinodale i fedeli laici che “Cristo il grande profeta … costituisce suoi testimoni provvedendoli del senso della fede e della grazia della parola (LG 35), sono chiamati a configurare il mondo in Cristo. Di qui deriva la loro funzione consultiva in materia relativa alle realtà temporali. Nel numero 37 di Lumen gentium i pastori sono esortati a riconoscere e promuovere «la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa»; a servirsi «volentieri del loro prudente consiglio», ad affidare «loro degli uffici in servizio della Chiesa» e lasciare loro «libertà e margine di azione», anzi a incoraggiarli «perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa».
 
Sebbene sia vero che la questione dei fedeli laici abbia avuto uno sviluppo notevole nel Vaticano II soprattutto in Apostolicam Actuositatem, gli eventi successivi sono stati lenti e spesso contraddittori. L'Esortazione Apostolica Christifideles laici del 1988 afferma chiaramente: In realtà, la sfida che i Padri sinodali hanno accolto è stata quella di individuare le strade concrete perché la splendida «teoria» sul laicato espressa dal Concilio possa diventare un'autentica «prassi» ecclesiale» (ChL 2).
 
Questa è una delle più grandi sfide attuali: tradurre nella pratica ecclesiale, a tutti i livelli, la teologia dei laici, che è teorico patrimonio della Chiesa, compresa la loro corresponsabilità nel discernimento e la loro cooperazione nel governo delle comunità ecclesiali. Altrimenti, i molteplici insegnamenti magisteriali che costituiscono veri testi programmatici, saranno destinati a rimanere una "immagine ideale" o una mera "retorica teologica".
 
Non ci potrà mai essere una credibile riforma della Chiesa senza passi concreti e visibili in questa direzione. Questo problema è anche uno dei chiari esempi dei limiti che sono esistiti nel tradurre le idee teologiche conciliari in prassi pastorale.
 
Nell’orizzonte della teologia del laicato sia consentito almeno un cenno al riconoscimento giusto e adeguato delle donne nella vita della Chiesa. Esso è, in larga misura, una questione pendente. La presenza svalutata delle donne negli organismi ecclesiali è uno degli squilibri istituzionali più visibili, dovuto soprattutto a “un clericalismo” dominante. Una prassi istituzionale più inclusiva, al di là delle ragioni specificamente evangeliche ed ecclesiali, è oggi una richiesta di giustizia secondo i segni dei tempi. Il contributo di uomini e donne è un requisito necessario per migliorare le condizioni che favoriscano i processi di discernimento e di governo.
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In questo modo i pastori «aiutati dall'esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo» (LG 37). Da parte loro, i laici «secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa» (LG 37).
 
Inoltre, il dialogo è, nella Chiesa, un'esigenza della reciprocità strutturale dei fedeli e dei pastori. Non è un caso che numerosi testi del Concilio Vaticano II caratterizzano la relazione tra pastori e laici con la categoria del dialogo.
 
In questo senso, c'è un’asimmetria tra pastori e fedeli, che non separa gli uni dagli altri, ma distingue il pastore come garante dell'apostolicità della fede. Nello specifico i vescovi, come successori degli apostoli, sono i custodi della dottrina della fede (cfr. DV 10; LG 25).
 
LG 25).
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I fedeli, al contrario, non sono istanza decisionale in questioni di fede, e la loro funzione unicamente consultiva è conseguenza della loro posizione ecclesiologica. Ma considerare questa funzione consultiva - non decisionale - come una valenza insufficiente nei confronti dei fedeli laici, significherebbe cadere in una logica estranea alla comunione ecclesiale.
 
Questa funzione consultiva dei fedeli non è un mero "aiuto" dato temporaneamente ai pastori, ma un autentico esercizio abituale del sacerdozio comune e del «senso soprannaturale della fede di tutto il popolo» di cui parla Lumen gentium al numero 12. Il sensus fidei si basa sulla comunione sincronica e diacronica nella verità rivelata, e per questo non si identifica con la categoria sociologica di "opinione pubblica".  
 
Ancor meno il sensus fidei consiste nella somma delle opinioni dei fedeli in contrapposizione al magistero dei pastori. In realtà, la funzione profetica della Chiesa si costituisce attraverso l'interazione del sensus fidelium e del munus docendi della gerarchia, quando "dai vescovi agli ultimi fedeli laici" si dà il consenso universale in ciò che riguarda la fede e i costumi. Sensus fidei e munus docendi sono implicati come momenti interni dell'ufficio profetico della Chiesa.
 
Da un lato, i pastori hanno ricevuto "il carisma certo della verità" (cfr. DV 8) e verificano la testimonianza della "fede affidata una volta per tutte ai santi" (cfr. LG 12). A loro volta, i pastori non dovrebbero fare a meno del sensus fidei, affinché si realizzi la sinergia unica tra vescovi e fedeli nella professione della fede ricevuta (cfr. DV 10), in virtù del quale la Chiesa non si può sbagliare nel credere (cfr. LG 12).

Questa sinergia è decisiva per l'articolazione della sinodalità ecclesiale.


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