Anno Santo - Il Vangelo della misericordia

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Nella Bolla di indizione dell’Anno giubilare Misericordiae Vultus papa Francesco dedica un lungo paragrafo al Vangelo della misericordia e scrive: “Nelle parabole dedicate alla misericordia, Gesù rivela la natura di Dio come quella di un Padre che non si dà mai per vinto fino a quando non ha dissolto il peccato e vinto il rifiuto, con la compassione e la misericordia. Conosciamo queste parabole, tre in particolare: quelle della pecora smarrita e della moneta perduta, e quella del padre e i due figli (cfr Lc 15,1-32). In queste parabole, Dio viene sempre presentato come colmo di gioia, soprattutto quando perdona. In esse troviamo il nucleo del Vangelo e della nostra fede, perché la misericordia è presentata come la forza che tutto vince, che riempie il cuore di amore e che consola con il perdono”.
Ma il Pontefice rammenta anche la parabola del “servo spietato” che “contiene un profondo insegnamento per ciascuno di noi. Gesù afferma che la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli. Insomma, siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia”. E conclude: “Il perdono delle offese diventa l’espressione più evidente dell’amore misericordioso e per noi cristiani è un imperativo da cui non possiamo prescindere”. (9).
 
Nella lingua ebraica il termine "misericordia" è sinonimo di tenerezza, di amore materno, viscerale, un affetto profondo del cuore. Avere misericordia significa perciò amare l’altro con un amore compassionevole, pronto al perdono, pronto a chinarsi su chi ha bisogno, avere il cuore rivolto al misero. Inoltre vuole tradurre una bontà cosciente e voluta, come risposta ad un dovere interiore, come fedeltà a se stesso. La misericordia, quindi, si trova fra la compassione e la fedeltà come è attestato in Isaia 49,15: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”.
 
Dicevano i rabbini che Dio è dotato di una capacità che gli umani non posseggono: quella di dimenticare i peccati commessi; dimenticarli perché considerati come non commessi. Noi possiamo perdonare, ma non dimenticare; Dio invece, quando perdona i peccati, li dimentica. È dunque nella tradizione sia ebraica che cristiana proclamare che la misericordia di Dio è infinita, che Dio condanna il peccato, il male commesso, ma non vuole né la morte né la condanna del peccatore. È in fedeltà a questa “buona notizia” che papa Giovanni, nell’enciclica Pacem in terris affermava che non bisogna “mai confondere l’errore con l’errante” e che “l’errante è sempre e anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona” e va quindi trattato con misericordia e compassione.
 
L’Antico Testamento è una grande scuola della Misericordia di Dio. Dio, in Es 34,6, si è rivelato a Mosè come “un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà”. L’amore di Dio per il suo popolo è di una fedeltà inimmaginabile. Ed è anche veritiero. La sua Misericordia si manifesta in primo luogo nel fatto che essa palesa la verità. L’Antico Testamento mostra la grandiosa Misericordia di Dio per i peccati del suo popolo. Ma i peccati non vengono né minimizzati, né banalizzati. Cristo porterà ciò a compimento: la Sua Misericordia non è mai senza la verità. La misericordia può “attecchire” solo là dove i peccati si chiamano per nome. Ma, viceversa, è possibile fissare lo sguardo sulla propria miseria, vedere i propri peccati e riconoscerli, solo nell’incontro con la Misericordia di Dio. Solo di fronte all’amore di Dio che odia il peccato, ma ama il peccatore, è possibile riconoscere e confessare il proprio peccato. Solo la fiducia in Dio fa sì che ci si possa pentire dei propri peccati veramente per amore di Dio. È la misericordia che pone un limite al male. In essa si esprime la natura del tutto particolare di Dio, la sua santità, il potere della verità e dell’amore.
 
Nell’enciclica di Giovanni Paolo II, Dives in misericordia: si legge: Il concetto di "misericordia" nell’Antico Testamento ha una sua lunga e ricca storia (...). Israele (...) fu il popolo dell’alleanza con Dio, alleanza che molte volte infranse. Quando prendeva coscienza della propria infedeltà, (...) faceva richiamo alla misericordia (...) I profeti collegano la misericordia di Dio all’amore di uno sposo. L’Esodo è tutta una grande operazione di misericordia, dall’inizio alla fine. Mosè parla di "Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà".
 
Tutte le caratteristiche di Dio misericordioso dell’Antico Testamento si manifestano pienamente nella persona del suo Figlio. Egli entra nella dimensione umana e partecipa pienamente alla vita dell’uomo e alla sua miseria. Va a cercare i peccatori, siede con loro a tavola e li chiama a essere i suoi discepoli. Percepire questa realtà può suscitare nell’uomo un desiderio di vera conversione e di fedeltà alla sua vocazione. Possiamo conoscere il mistero della Misericordia solamente perché Dio stesso l’ha rivelato e contemplato dagli autori ispirati nei testi sacri dell’Antico e Nuovo Testamento. Nella storia del mondo, nella vita delle singole persone bibliche e nella storia del popolo eletto, Dio ha rivelato il Suo Amore Misericordioso che non solamente solleva l’uomo dal peccato, ma ripara anche tutte le debolezze umane. La Misericordia, quindi, si manifesta in ogni azione di Dio. Tutto ciò che Dio fa per l’uomo è espressione del suo amore misericordioso. Dio è amore, e proprio perché amore è apertura, accoglienza e dialogo; e nella sua relazione con gli uomini è misericordia, compassione, grazie e perdono.
 
Il Nuovo Testamento è definito e caratterizzato dalla venuta-presenza di Cristo. Gesù è il poeta della misericordia di Dio Padre! Il perdono e la misericordia sono stati al centro della missione del Gesù storico. Gesù non ha negato davvero l’esistenza del peccato né del peccatore, ma mentre ha condannato il peccato, è sempre stato misericordioso verso il peccatore e per la remissione dei peccati “di molti” ha sparso il suo sangue innocente sulla croce. Nelle sue piaghe gloriose possiamo riconoscere i segni indelebili della misericordia infinita di Dio.
 
La venuta di Gesù sulla terra fu salutata con due inni che sono un esultante riconoscimento alla misericordia divina già risuonata nell'Antico Testa­mento. Maria, la voce più autorevole, dà lode al Signore con tutta l'anima perché Dio "si è ricordato della sua mise­ricordia". Per Maria il Messia Salvatore è la massima mani­festazione della fedeltà di Dio al suo Amore verso il po­polo che ne aveva bisogno, ossia Amore Misericordio­so che interviene a salvare.
Zaccaria, il padre del Battista, benedice il Dio d'Israe­le "perché ha visitato e redento il suo popolo" portan­do la salvezza. "Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza". La salvezza e la liberazione dal male ci sono donate nel Cristo "grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio". Abbiamo così in questi due canti il richiamo all'amore paterno e materno di Dio, già riconosciuto nell'Antico Testa­mento e qui posto all'origine dell'Avvenimento Cristo.
 
Le parabole che papa Francesco richiama in Misercordiae Vultus quelle della pecora smarrita e della moneta perduta, e quella del padre e i due figli (cfr Lc 15,1-32) vanno tutte nel verso della misericordia o dei grandi perdoni. A ben vedere il perdono di Gesù è offerto a tutti gli uomini; egli infatti ha annunciato il Vangelo della salvezza universale. Ecco perché a ragione si può dire che Luca abbia scritto il Vangelo della gioia messianica.
 
Nel capitolo 15 - indicato da papa Francesco - l’evangelista Luca presenta tre parabole che hanno in comune la nota della misericordia divina verso i peccatori: la parabola della pecora smarrita e ritrovata, della dramma smarrita, dei due figli. Luca offre in tal modo il perfetto esempio della buona notizia: il vangelo nel vangelo. Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro e questo gli procura critiche e mormorazioni. È questo uno dei punti di costante tensione fra Gesù e i suoi avversari, come tutto il vangelo testimonia.
 
L’annotazione introduttiva alle tre parabole ricorda che l’accoglienza dei peccatori era un comportamento abituale di Gesù: “Si facevano vicini a lui tutti i pubblicani e i peccatori”. Ma si trattava di un comportamento che spesso irritava gli scribi e i farisei. Non è che i farisei escludessero definitivamente i peccatori; volevano però che il comportamento di Gesù nei loro confronti fosse severo e che, di conseguenza, i peccatori per ritornare nella comunità dovessero pagare un prezzo di penitenza, di opere e di osservanze. Non accettavano dunque il comportamento benevolo di Gesù, che rivelava il vero volto del Padre che attende i peccatori, li cerca e gioisce del loro ritorno. Ma a volte i (creduti) “giusti” hanno invidia di questa misericordia di Dio e ne restano irritati: vorrebbero un altro tipo di padre, più severo, più giudice, meno padre.
 
In tutte e tre le parabole viene messa in evidenza la gioia di Dio per la conversione del peccatore.
1. Nella conclusione della prima si legge: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza”.
2. Nella conclusione della seconda: “C’è gioia davanti a Dio per un solo peccatore che si converte”.
3. Nella terza parabola manca la parola gioia, però si parla di festa: “Facciamo festa, poiché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita”.
 
Dunque l’attenzione delle parabole si concentra sulla gioia di Dio per la conversione del peccatore, non sull’azione del peccatore che si converte. Si racconta ciò che prova Dio, non ciò che il peccatore deve fare; il discorso è teologico non morale. La novità della rivelazione evangelica riguarda in primo luogo il comportamento di Dio (un Dio che cerca il peccatore e gioisce del suo ritrovamento), non anzitutto le modalità della conversione dell’uomo.
 
La pecora smarrita e ritrovata (Lc 15, 4-7)
 
La prima parabola è così formulata: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta». La narrazione si ispira quasi certamente alla immagine biblica del Buon Pastore che si prende cura del suo popolo (cf. Is 40,1; Ez 34; Sal 23). Dal punto di vista didattico Gesù mette con le spalle al muro i suoi interlocutori ancor prima delle riflessioni finali. E in fatti introduce la parabola con una domanda retorica tipica dello stile di Luca: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?» Va da sé che ognuno non avrebbe potuto che dare la sola risposta possibile: lasciare le novantanove nel deserto e andare in cerca di quella perduta finché non l’ha ritrovata!
 
La parabola contiene il paradosso che sta proprio nel comportamento del pastore, il quale preferisce mettere a repentaglio tutto il gregge piuttosto che non portare nell’ovile anche una sola pecora. La sproporzione tra il numero novantanove e il numero uno mette in risalto proprio l'interesse del pastore per la singola pecora. In questo contesto lasciare le novantanove nel deserto non deve essere valutato come imprudenza o scarso interesse. Per Luca trattasi di un elemento narrativo che serve a evidenziare la condotta premurosa del pastore a favore della pecora perduta. Merita notare che il binomio perduto/ritrovato attraversa tutto questo capitolo 15 del terzo vangelo. Proprio per questo l’insegnamento del Maestro è implicito, ma chiarissimo: le altre novantanove non sono vere pecore del gregge se non capiscono la sollecitudine del pastore anche per una sola pecora che si era smarrita.
 
Ma Luca va oltre e introduce il tema della festa e della gioia; nota infatti che, trovata la pecora smarrita il pastore se la mette sulle spalle e poi invita amici e conoscenti a rallegrarsi con lui. E l’evangelista chiosa: «Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione». Questo versetto è l'applicazione della parabola. Dal racconto metaforico Luca passa al suo vero significato. La pecora perduta è il peccatore che si converte. La festa di Dio non è tanto per la ricerca del peccatore quanto per la sua conversione. La sua profonda motivazione risiede in un amore che non può permettersi di abbandonare, di lasciar perdere, di non cercare chi è perduto, perché la sua gioia sta nel ritrovare e recuperare. Sottolineando la gioia per la conversione del peccatore, Luca fa della parabola una rivelazione della bontà salvifica di Dio. Con il suo comportamento Gesù si adegua alla misericordia del Padre manifestando ai peccatori la sua. San Gregorio Magno dirà: «Pose la pecora sulle sue spalle, poiché assumendo la natura umana egli si caricò anche i nostri peccati» (S. Gregorio Magno, Homiliae in Evangelia 2,14,3).
 
Questa parabola, oltre allo sfondo veterotestamentario ha anche un parallelo in Matteo (18, 12-24), la cui prospettiva, però, è molto differente. Matteo non inserisce la parabola in una polemica con i farisei, ma all’interno di una regola di comportamento per la comunità. Non insiste particolarmente sulla gioia del ritrovamento, ma sulla ricerca da parte del pastore. Così il punto di vista di Matteo si chiarisce: un invito alla comunità ecclesiale, e in particolare ai suoi responsabili, perché vadano alla ricerca degli smarriti, imitando in questo il Signore Gesù. Luca, invece, come già abbiamo detto, racconta la gioia di Dio nell’aver ritrovato la pecora smarrita.
 
La dramma perduta (Lc 15, 8-10)
 
Lo schema della seconda parabola è lo stesso di quello del pastore e della pecora: «Quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta». Anche qui la domanda è retorica. Va da se che se una donna ha dieci dramme e ne perde una la cosa più importante e ovvia è quella di mettersi a cercarla finché non l’abbia trovata. Con tre verbi: accendere, scopare, cercare viene sottolineato lo sforzo della ricerca della moneta perduta. E quando finalmente l’ha trovata prova così tanta gioia che non può non chiamare le sue vicine e amiche per invitarle a fare festa e gioire con lei.
Anche in questa parabola ciò che balza immediatamente agli occhi non è tanto il ritrovamento della moneta, il cui valore è sì importante ma non rilevantissimo! Il punto saliente della parabola è proprio l’esultanza indicibile per il ritrovamento della moneta. Ed è proprio questo che la parabola intende rilevare: «Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». In cielo si gode per un peccatore che si converte e si fa festa con la stessa gioia che la donna ha provato per il ritrovamento della sua moneta. È la gioia messianica per la conversione del peccatore l’obiettivo didattico del Giovane Rabbi.
 
Con queste due parabole l’evangelista vuole presentare la misericordia sovrabbondante di Dio che manifesta la sua potenza non condannando ma perdonando. Similmente tutta l’opera di Gesù verrà considerata in questa prospettiva come manifestazione dell’infinito amore misericordioso di Dio. Ma vi è un altro aspetto che attira la nostra attenzione e riempie il cuore di gioia: la bontà misericordiosa del nostro Dio non è destinata a tutti in modo generico, ma raggiunge ciascuno personalmente. Ognuno è pensato, cercato, amato fosse anche il peccatore più incallito; ma mai condannato e sempre e solo accolto con amore e con gioia. Ezechiele aveva affermato che Dio non vuole la morte del malvagio, ma «piuttosto che desista dalla sua condotta e viva» (18,23; 33,11).
 
Il Padre e i due figli (Lc 15, 11-32)
 
Da qualunque angolatura si consideri la parabola del Padre e dei due figli ci si accorge che al centro c’è sempre la figura del padre che dà unità all’intera narrazione. Il punto su cui la parabola concentra l’attenzione è come Dio si pone di fronte ai due figli – il peccatore e il giusto – e come i due figli si pongono davanti a Lui. In ambedue i casi, c’è un netto contrasto; qui sta la novità della teologia di Gesù. È in gioco il vecchio e il nuovo, il vino e gli otri, non c’è spazio per alcun rattoppo.
 
L’attenzione, dunque, indugia sulla figura del padre che non riceve altra gioia più grande che quella di essere capito come padre ricco di misericordia. Gesù, attraverso questo insegnamento, presenta il vero volto di Dio che non condanna e non castiga, né vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva. Misericordia è il nome di Dio, e Padre è il suo volto.
Secondo la parabola evangelica "un uomo aveva due figli" che erano totalmente incapaci di riconoscere e accettare l’amore del padre. Uno se ne andò lontano; l'altro era talmente estraneo al suo sentimento da ritenersi addirittura migliore del padre grazie al dovere compiuto. Uno ha provato a sostituire il padre con il proprio piacere; l’altro non ha capito l’amore e il perdono del padre. Nessuno dei due conosceva davvero il proprio padre! Il vero volto di Dio è la misericordia e nessuno dei due figli lo aveva capito; entrambi hanno agito per calcolo.
 
Il figlio minore si sentiva oppresso e decise di abbandonare la casa paterna in cerca di libertà che non trovò. Lontano da suo padre si vide costretto a servire uno degli abitanti del luogo che lo mandò nel campo a pascolare i porci.
Nella sua vicenda del figlio minore c’è la descrizione del disagio del peccatore che si accorge quanto è umiliante e vuota la vita lontano da Dio. Fu questo è il peccato del figlio minore: la diffidenza nei confronti del padre, e la pretesa di costruire da solo la propria vita. La decisione del ritorno avvenne quando nel suo cuore riaffiorò la nostalgia del padre e della casa. Quando si accorse che aveva cercato una libertà lontana dall’amore. Forse non si può proprio dire che il figlio sia ritornato a casa per amore del padre o per il pentimento del male commesso, e neppure per la nostalgia di casa. Non tornò per amore; tornò per fame "mentre i salariati di mio padre, hanno pane in abbondanza"... Non perché era pentito, ma per una situazione di indigenza decise di a fare ritorno a casa. «Trattami come un servo», disse al padre. Questa fu l’ultima dimostrazione del suo errore, perché non aveva capito che il padre non l’avrebbe mai ammesso al suo servizio, ma accolto come figlio. Infatti gli spalancò le braccia e dispose che si facesse festa.
 
Il figlio maggiore, anziché godere della gioia del padre, ne prova irritazione. La gioiosa accoglienza riservata al fratello minore gli dà l’amara sensazione che la sua fedeltà di rimanere in casa sia del tutto sprecata. Secondo criteri di stretta legalità, il figlio maggiore forse non ha avuto tutti i torti. Ma con la sua grettezza egli dimostrò di non avere cuore, di essere insensibile persino ai vincoli familiari, insomma di non saper amare né di saper riconoscere l'amore di cui era circondato. Il peccato del figlio maggiore è costituito dal fatto che egli non ha saputo sintonizzarsi con i sentimenti di amore e di misericordia del Padre. Non aveva mai colto la forza del suo amore, la grandezza e la gratuità di quell'amore che, perdonando, fa nuova ogni creatura. In realtà il figlio maggiore è stato figlio solo all’apparenza fedele, ma in verità non si è mai sentito figlio! Anche se non è fug­gito da casa, egli con il cuore non è mai stato in casa perché non pensava e non amava come suo padre. Considerò il Padre come padrone e se stesso non come figlio ma come servo. È vissuto con lo spirito dello schiavo. Non ha scoperto né il Padre, né il suo amore. È sempre stato con lui, ma non ne ha assimilato il cuore. Né il segno e la grandezza della vera libertà. Nel suo cuore non c'era amore.
Il figlio maggiore si è lasciato convincere? È entrato in casa a far festa? Non lo sappiamo. La conversione del giusto è, a volte, più difficile di quella del peccatore.
 
E conclude papa Francesco nella Misericordiae Vultus: Come si nota, la misericordia nella Sacra Scrittura è la parola-chiave per indicare l’agire di Dio verso di noi. Egli non si limita ad affermare il suo amore, ma lo rende visibile e tangibile. L’amore, d’altronde, non potrebbe mai essere una parola astratta. Per sua stessa natura è vita concreta: intenzioni, atteggiamenti, comportamenti che si verificano nell’agire quotidiano. La misericordia di Dio è la sua responsabilità per noi. Lui si sente responsabile, cioè desidera il nostro bene e vuole vederci felici, colmi di gioia e sereni. È sulla stessa lunghezza d’onda che si deve orientare l’amore misericordioso dei cristiani. Come ama il Padre così amano i figli. Come è misericordioso Lui, così siamo chiamati ad essere misericordiosi noi, gli uni verso gli altri”. (9)
 
Aprirsi e accettare l’immagine di questo Dio compassionevole e misericordioso, significa essere capaci e disponibili a concedere misericordia. Se si permette di entrare nella propria vita un Dio che accoglie i peccatori, è necessario e indispensabile trasformarsi in qualcosa come lui. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36). La misericordia è la veste di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo. Non dobbiamo lasciare che questa luce si spenga; al contrario, deve aumentare in noi ogni giorno per portare la mondo la misericordia di Dio.
 
Pertanto ogni credente, ogni comunità cristiana deve impegnarsi a vivere questo Giubileo della misericordia diventando nelle parole e nelle opere misericordiosi.