«Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali»

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  << Rompere la globalizzazione dell'indifferenza >>

 

Secondo l’evangelista Luca quando Gesù gridò "non si può servire Dio e mammona", alcuni farisei che erano in ascolto ed erano amanti del denaro probabilmente risero di Lui. Ma il Giovane Rabbi di Nazaret non indietreggiò e rincarò la dose narrando un racconto straziante perché chi vive schiavo della ricchezza possa aprire gli occhi per tempo.


La parabola di questa XXVI domenica per annum sembra essere narrata per noi. Gesù parlò di un ricco potente. I suoi abiti di porpora e di bisso esprimevano ostentazione e lusso. La sua vita era una festa continua. Indubbiamente apparteneva a quel settore privilegiato che viveva a Tiberiade o a Gerusalemme. Erano quelli che possedevano ricchezza, avevano potere e godevano di una vita lussuosa. Ma il Vangelo non riferisce il suo nome! Questo ricco non ha nome perché non ha identità.

 

«Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe». Non era coperto di lino e di porpora, ma di piaghe ripugnanti. Non sapeva che cosa fosse una festa. Non gli davano neppure «quello che cadeva dalla tavola del ricco». Solo cani randagi gli leccavano le sue piaghe. Non aveva proprio nulla. Ma aveva un nome! Lazzaro o Eliezer che significa Dio è il mio aiuto.


La scena è insopportabile. Il ricco aveva tutto. Non aveva bisogno di alcun aiuto da Dio. Non vedeva i poveri. Si sentiva al sicuro. Viveva in una totale indifferenza. Lazzaro, al contrario, è esempio di totale povertà: infermo, affamato, escluso, ignorato da coloro che lo avrebbero potuto aiutare. La sua unica speranza era riposta in Dio.


Gesù non pronunciò nessuna parola di condanna. Ma la realtà era stata smascherata. «Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto».  Ma andò a finire «negli inferi fra i tormenti».

 

Cari Amici

Gesù non ha denunciato solamente la situazione della Galilea degli anni Trenta. Ha cercato e cerca di scuotere la coscienza di coloro che sono abituati a vivere nell’abbondanza.  Il nostro primo compito è quello di rompere la globalizzazione dell'indifferenza.


Il contrasto tra i due protagonisti della parabola è tragico. Con le immagini popolari del tempo, Gesù ricordò che Dio ha l'ultima parola sui ricchi e sui poveri. Il Vangelo non dice che il ricco epulone fosse una persona malvagia. Egli ha semplicemente goduto la sua ricchezza ignorando i poveri. Erano accanto alla sua porta, ma lui non li ha visti. Il povero Lazzaro era sulla soglia della sua casa, ma il ricco epulone non gli si è avvicinato. E lo ha escluso dalla sua tavola e dalla sua vita. Il suo peccato è stato l'indifferenza.


Anche nella nostra società sta crescendo la globalizzazione dell’indifferenza e la mancanza di sensibilità verso la sofferenza degli altri. La presenza di un bambino mendicante sulle nostre strade ci dà fastidio. Il lavavetri stranieri al semaforo delle nostre vie urta la nostra sensibilità. Tutte le volte che veniamo informati che sulle nostre coste ci sono degli sbarchi di immigrati fuggiti dalla miseria, dalla guerra e dalla disperazione in cerca di pace, di libertà e di lavoro siamo presi dalla stizza e dalla insofferenza.

La malattia di un amico è motivo sufficiente per prendere le distanze.

E gli esempi potrebbero continuare. Ma ciascuno di noi sa quale sia il proprio “nervo scoperto”.


Il discepolo di Gesù è colui che come il Maestro è capace di opere di misericordia corporali e spirituali per alleviare la situazione di chi sta nel bisogno. Come si può dire di credere in Dio e di essere bravi cristiani fino a quando continueremo a lasciare fratelli e sorelle nel dolore e nella desolazione?

Come possiamo essere discepoli del Cristo che proclama che Dio è Padre di tutti se poi noi facciamo distinzioni etniche, religiose, culturali, razziali, ecc.? Credere in Dio significa credere in un Padre che ama tutti, vuole bene a tutti, promuove  e riconosce la dignità di tutti i suoi figli senza distinzione alcuna.