Omelia nella 4 domenica di Pasqua
«Do la mia vita per le pecore»

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   ✠  Dal Vangelo secondo Giovanni 10,11-18

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

 

Da quattro settimane stiamo vivendo il grande tempo di Pasqua. La Liturgia ricorda che si tratta di una continuata, lunga, solenne celebrazione, cominciata la domenica di Resurrezione e che terminerà con la Pentecoste.
Il Tempo di Pasqua, infatti, dura cinquanta giorni, sette volte sette giorni, una settimana di settimane, con un domani.

E’ come una scuola che la Chiesa offre al popolo di Dio, attraverso la Parola di salvezza, per entrare nel mistero della Resurrezione: capolavoro di amore di Dio. E’ questa l’importanza delle domeniche di Pasqua: assimilare, con l’aiuto della Parola di Dio, quanto è avvenuto dopo la Resurrezione di Gesù. Gli Atti degli Apostoli rispondono al desiderio di conoscere quello che è accaduto dopo la Risurrezione di Cristo e testimoniano la vita della Chiesa ancora neonata, formata da un piccolo gruppo di persone credenti.

 

La liturgia della Parola in questo tempo di Pasqua ha dato conto delle apparizioni di Gesù risorto ai suoi discepoli. Oggi il Vangelo ci orienta alla comprensione di come il Signore e Maestro si renda presente nella comunità cristiana. La Chiesa proporrà alla nostra riflessione alcuni brani del Vangelo di Giovanni a partire dall’immagine del pastore; domenica prossima sarà la volta della icona della vite e i tralci.

Ogni anno, infatti, la quarta domenica di Pasqua presenta un passo del capitolo 10 del vangelo secondo Giovanni, in cui Gesù parla di sé come pastore del grande ovile dell’umanità. In un mondo prevalentemente urbano tale icona non suggerisce nulla. Ma questa è l’immagine che i primi cristiani di Roma hanno dipinto con pennellate rapide, veloci e ingenui sulle tombe delle catacombe.


Il testo liturgico odierno si divide in tre momenti:
- Gesù buon pastore
(vv. 11-13);
- il rapporto del pastore con le pecore del gregge
(vv. 14-16);
- il rapporto con il Padre
(vv. 17-18).


In verità il Vangelo non presenta il pastore “buono”. Il termine originale è “bello” (kalòs). Perciò Gesù dice: “Io sono il bel pastore”. Non si tratta tanto di una bellezza fisica, quanto di una bellezza dell’essere. L’aggettivo greco kalòs indica ciò che è vero, ideale e modello di perfezione. È il fascino dell’essere o dell’animo umano. È la bellezza della verità. La verità che conosce la strada e la mèta.

Cristo è il bel pastore perché ci conduce verso pascoli fertili, verso ideali stupendi, dai grandi orizzonti. E
gli è il pastore ideale annunziato nelle Scritture. La bellezza del Pastore sta nell'amore con cui stabilisce con ognuna delle sue pecore una relazione diretta e personale di intensissimo amore. Questo significa che l'esperienza della sua bellezza si fa lasciandosi amare da lui, consegnandogli il proprio cuore perché lo inondi della sua presenza, e corrispondendo all'amore così ricevuto con l'amore che Gesù stesso ci rende capaci di avere.

 

Nella pericope evangelica di quest’anno il Bel Pastore pone subito una distinzione tra coloro che conducono il gregge al pascolo. Ci sono i mercenari, cioè quanti lo fanno di mestiere, interessati soltanto allo stipendio, dunque al proprio interesse; a loro non importa delle pecore e se un lupo le assalta se la danno a gambe, abbandonandole alla loro sorte. Il mercenario “che non è pastore e al quale le pecore non appartengono” non le sente sue e quindi non è in sintonia con loro. "Vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde". Tutto questo, conclude l’evangelista Giovanni, "perché è mercenario e non gli importa delle pecore". Il mercenario vede, pensa a se stesso, abbandona e il gregge si disperde. Io non sono così, dice Gesù: Io sono il buon pastore, che ha cura delle pecore, le guida ai pascoli migliori, le protegge e le difende sino a dare la vita per loro. Nella dichiarazione Io sono Gesù indica al contempo rivelazione-promessa-impegno.

 

Il Maestro/Pastore vuole rivelarci il suo mistero e il suo rapporto con noi. E ciò che esprime è chiaro:

    “Io sono il buon pastore”. Gesù si attribuisce la qualifica di «buon/bel pastore» e la illustra a partire dal rapporto che egli instaura con le sue pecore: egli le conosce ed esse dal canto loro conoscono lui, come il Padre lo conosce ed egli conosce il Padre. Gesù, proclama se stesso l’unico pastore del gregge: Colui che era stato annunciato dal profeta Ezechiele (Ez 34,23) e cantato dal salmista, trova in Gesù la sua piena realizzazione.

    “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Tra il pastore e le pecore si instaura un intimo rapporto di conoscenza reciproca, da non intendersi in senso intellettualistico bensì come comunione profonda di vita. Il verbo «conoscere», usato quattro volte, indica l’amore di Gesù per i suoi discepoli, che ha come fondamento e modello l’amore reciproco tra lui e il Padre. Nel linguaggio biblico, il verbo conoscere implica intimità e reciproca fiducia. Quando dunque Gesù dice: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”, si intuisce quale profondità presenti il suo amore per noi e con quale profondità egli si aspetti di essere ricambiato.

    “Io do la mia vita per le pecore”. L’espressione viene ripetuta con qualche variazione ben quattro volte nel brano (vv. 11.15.17.18). E’ interessante il verbo greco inteso come «(de)porre» (tithêmi) usato nel senso di offrire in modo consapevole e libero. Inoltre la preposizione per (hyper), significa espressamente «in favore di». Con queste parole Gesù interpreta il mistero della sua morte e risurrezione. Il vangelo riprende così il tema della pasqua: la morte di Gesù è un dono d’amore fatto perché gli uomini abbiano la vita. Il suo è stato è un sì d’amore al Padre per la vita dell’umanità.


Cari Amici

Gesù Bel Pastore guida noi, uomini del terzo millennio dell’era cristiana, nei luoghi di maggior pascolo. Come le pecore anche noi rischiamo di peregrinare spesso sbagliano strada e percorso; basta un fischio del buon pastore per rimettere nella giusta carreggiata. E’ lo stile e la missione di Gesù per essere vicino a ogni persona. La sua missione è quella della salvezza che chiederà a Cristo stesso il supremo sacrificio della vita con la sua morte in Croce. Il suo stile di pastore attento, vigilante, sicuro, forte e responsabile è quello di non far smarrire nessuno, anzi aggregare le pecore sbandate e senza guida di altri ovili.

 

Oggi viviamo in una sorta di adolescenza prolungata. Vogliamo essere indipendenti e lasciare che l'istinto o il caso dirigano i nostri passi. Ma questa pretesa di libertà è fuorviante. Non è libero chi fa ciò che vuole, ma chi sa come dirigere i propri passi verso alcuni valori autenticamente umani e umanizzanti. La sindrome dell’orfano attanaglia la vita di molte persone. E sono molti che percorrono le strade del mondo modelli di riferimento. E quel che è peggio, senza la figura di una persona che si prenda cura di loro. L'immagine di Gesù come Pastore ci ricorda che non siamo soli nella vita. E che siamo importanti per Qualcuno!

 

Dal testo del Vangelo di oggi comprendiamo esattamente proprio questo. Dio ci ama personalmente. Nelle parole di Gesù: "Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me", c’è una reciproca comunione d'amore e di conoscenza. Ricorda sant’Agostino "Dio ama ciascuno come fosse l'unico". Dio chiama ogni singolo individuo a essere "figlio nel Figlio", per entrare in quello stupendo rapporto che intercorre tra il Padre e il Figlio Unigenito in seno alla Trinità. Questo rapporto viene espresso proprio da Gesù quando dice: "come il Padre conosce me e io conosco il Padre".

La salvezza operata da Cristo ci ha messo in una condizione particolare di grazia e amicizia con Dio. Noi siamo realmente figli di Dio. Nel mistero della Pasqua di morte e risurrezione, noi abbiamo accesso alla vita divina in questo mondo e all’eternità nell’altra, nella misura in cui noi conosciamo, amiamo e serviamo il Signore, coscienti della nostra dignità di uomini e di figli adottivi di Dio.

 

Impossibile non chiedersi oggi: chi conduce la mia vita? Su quali pascoli? Dietro quale pastore? Solo Gesù offre la sua vita per amore delle sue pecore. Gesù è l'unico pastore che mi ama, che mi conosce e mi valorizza. Egli non mi ama per avere un tornaconto come fanno i mercenari. Il suo amore senza condizioni è vero e serio: Gesù sceglie di donare la sua vita, non vi è costretto, lo desidera e lo fa', perché davvero mi ama...

L’interesse di Gesù è il mio bene; il suo unico desiderio è che io possa pascolare in prati erbosi e dissetarmi a sorgenti d'acqua. Egli è morto per indicarmi la strada, ha donato la sua vita per la mia. Anche noi, a sua immagine, siamo chiamati ad amare! Vivere da pecore significa prendere sul serio le parole di Gesù, riferirsi a lui nelle scelte quotidiane, amare e amarci come lui ci ha chiesto, insomma vivere da risorti, da salvati.

 

L’immagine del pastore e del gregge contiene inoltre un chiaro riferimento alla Chiesa, nuovo popolo di Dio, che trae vita e significato esclusivamente dal suo rapporto con Gesù e, per mezzo suo, con il Padre. I credenti in Gesù partecipano della stessa libertà di cui è dotato il loro pastore. Essi non lo seguono per costrizione, ma perché sono entrati nella sua mentalità e nel suo modo di vivere. Scegliamo Gesù come nostro pastore, il Vangelo come metro di giudizio, l'amore autentico come percorso per arrivare a Dio.

Dio onnipotenre e misericordioso
guidaci al possesso della gioia eterna,

perché l’umile gregge dei tuoi fedeli

giunga con sicurezza accanto a te,

dove lo ha preceduto il Cristo, suo pastore.

Amen.



 

* * *

Il Vangelo del Bel Pastore ha suggerito la collocazione in questa domenica della giornata di preghiera per le vocazioni sacerdotali e di speciale consacrazione.

Disse san Paolo VI: “Il sacerdote è uomo che vive non per sé, ma per gli altri. È l'uomo della comunità … Il mondo ne ha bisogno. La Chiesa ne ha bisogno … Chi non ha bisogno dell'annuncio cristiano? Della fede e della grazia? Di qualcuno che si dedichi a lui con disinteresse e con amore? Dove non arrivano i confini della carità pastorale? … Mai come oggi forse la Chiesa ha avuto coscienza di essere tramite indispensabile di salvezza e non illuderemo di ipotizzare un mondo senza la Chiesa, e una Chiesa senza ministri, preparati, specializzati, consacrati. Il prete è di per sé il segno dell'amore di Cristo verso l'umanità ed il testimone della misura totale con cui la Chiesa cerca di realizzare quell'amore che arriva fino alla croce”. (30 giugno 1968)

 

Il Sacerdozio è un donare la propria vita per amore, sull’esempio di Cristo; un “amoris officium”: servizio di amore. La povertà in cui ci troviamo rende urgente la proposta del tema e la preghiera al Signore. Questo significato più specifico della vocazione al ministero per i fratelli, deve suscitare nel nostro cuore almeno tre sentimenti:

      di preghiera, perché non manchi mai la presenza della ministerialità del sacerdozio sacramentale; perché il Signore doni alla sua Chiesa giovani che ascoltino l’invito ad essere "pastori" secondo il suo cuore. La preghiera per le vocazioni di speciale consacrazione è una intenzione che dobbiamo tenere costantemente presente, poiché si tratta di una necessità primaria della Chiesa;

    di impetrazione, in quanto la vocazione è un dono di Dio; è Dio che chiama toccando il cuore e attraendo soavemente a Lui come Egli sa farlo. Egli non violenta la libertà, ma la purifica perché possa essere più libera la risposta. La vocazione cresce nel sacrario della coscienza dove Dio fa sentire la sua chiamata e suscita l’attrazione per seguirlo

      di responsabilità, in quanto la vocazione è un dono che si sviluppa nella comunità cristiana. E’la Chiesa madre che genera le vocazioni e in essa le comunità cristiane che vivono la testimonianza del Vangelo. Dove c’è una comunità viva là nascono vocazioni sacerdotali e di speciale consacrazione. Dio chiama sempre. Forse i cuori dei nostri giovani sono turbati da altri richiami e non percepiscono la chiamata perché non conoscono testimoni che un giorno hanno risposto gioiosamente alla medesima chiamata.

 

E vogliamo bene ai nostri sacerdoti! Chiediamo loro ciò che di più prezioso hanno: Cristo. Ricordava il Papa emerito Benedetto: “Dai sacerdoti i fedeli attendono soltanto una cosa: che siano degli specialisti nel promuovere l’incontro dell’uomo con Dio. Al sacerdote non si chiede di essere esperto in economia, in edilizia o in politica. Da lui ci si attende che sia esperto nella vita spirituale”.

E aiutiamo i nostri sacerdoti a camminare nella serenità del Vangelo sostenuti dalla nostra preghiera, dalla nostra amicizia e dalla nostra fraternità. E non dimentichiamo, in questa giornata, di pregare intensamente per il primo sacerdote della Chiesa cattolica: il nostro amato papa Francesco. Egli con umiltà e "per favore" ci chiede di "non dimenticarci" di pregare per lui.
 


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