Omelia nella 24 domenica per annum
«La misericordia e la tenerezza di Dio»

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Dal Vangelo secondo Luca 15,1-10
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».


Nel contesto della seconda parte del viaggio di Gesù a Gerusalemme (capitoli 13,22 - 18,30) è situata una nuova raccolta di insegnamenti riguardante la misericordia di Dio (15,1-32). 
Il capitolo 15 del vangelo di Luca, che la liturgia della Parola di XXIV questa domenica per annum ci presenta nella sua integrità, costituisce uno dei "gioielli" non solo del terzo Vangelo, ma di tutto il Nuovo Testamento. Questo capitolo viene chiamato anche “libretto della misericordia”. Certamente è uno dei testi più alti della letteratura di ogni tempo. La rivelazione cristiana raggiunge il suo vertice perché ci introduce nell'intimità più profonda di Dio.


Ma che cosa significa misericordia? Il fonema "misericordia" è composto dalla fusione di due vocaboli latini: "miseria" et "cor". Con il termine "cuore" l’antropologia contemporanea indica la capacità di amare di una persona. E allora accostando miseria e cuore ─ da cui si origina "misericordia" ─ essa assume il significato di:

      amore che guarda alla miseria della persona umana;

      amore che ha compassione;

      amore che si prende cura della miseria della persona.

 

Un antico vocabolario della lingua italiana offre della misericordia una piena e suggestiva definizione: “sentimento per il quale la miseria altrui tocca il nostro cuore”. Infatti il misericordioso è colui che ha cuore per le miserie altrui. Misericordia è, dunque, avere un cuore pervaso da un forte amore che si china sulla miseria e sulla fragilità di una persona. La misericordia è il nome biblico dell’amore. La misericordia è il più stupendo di tutti gli attributi di Dio.

 

Il capitolo si trova al centro del vangelo lucano. Ciò significa che la rivelazione del Dio misericordioso ha per lui un'importanza … centrale. Qui Luca raccoglie in maniera unitaria tre parabole, chiamate “parabole della misericordia”: la parabola della pecora smarrita e ritrovata, della dramma smarrita, dei due figli. Possono essere considerate un'unica parabola in tre scene.

Le due prime similitudini -
affini nel contenuto e simmetriche nella forma - corrispondono ai due “quadri” del terzo racconto.
La pecora perduta  corrisponde al figlio minore perduto fuori casa.
La dracma perduta dentro la casa corrisponde al figlio maggiore che, pur restato a casa, rifiuta di entrarvi.


Luca offre in tal modo il perfetto esempio della buona notizia: il vangelo nel Vangelo.
Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro e questo gli procura critiche e mormorazioni.
È questo uno dei punti di costante tensione fra Gesù e i suoi avversari, come tutto il vangelo testimonia.

 

L’annotazione introduttiva alle tre parabole ricorda che l’accoglienza dei peccatori era un comportamento abituale di Gesù: «Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo». Ma si trattava di un comportamento che spesso irritava gli scribi e i farisei. Non è che i farisei escludessero definitivamente i peccatori; volevano però che il comportamento di Gesù nei loro confronti fosse severo e che, di conseguenza, i peccatori per ritornare nella comunità dovessero pagare un prezzo di penitenza, di opere e di osservanze.

Non accettavano dunque il comportamento benevolo di Gesù che rivelava il vero volto del Padre che attende i peccatori, li cerca e gioisce del loro ritorno.

 

In tutte e tre le parabole viene messa in evidenza la gioia di Dio per la conversione del peccatore.

1.  Nella conclusione della prima si legge: «Vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione».

2.    Nella conclusione della seconda: «Vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

3.    Nella terza parabola manca la parola gioia, però si parla di festa: «Facciamo festa, poiché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita».

 

Dunque l’attenzione delle parabole si concentra sulla gioia di Dio per la conversione del peccatore, non sull’azione del peccatore che si converte.

Si racconta ciò che prova Dio, non ciò che il peccatore deve fare; il discorso è teologico non morale.

La novità della rivelazione evangelica riguarda in primo luogo il comportamento di Dio: un Dio che cerca il peccatore e gioisce del suo ritrovamento, non anzitutto le modalità della conversione dell’uomo.

 
Tutte e tre hanno una loro specifica connotazione e sono finalizzate a precisi scopi catechetici e possono essere riassunte nel tema: la grandezza dell’amore di Dio.

L'amore di Dio che in esse si manifesta significa, infatti, tenerezza di Padre e perdono misericordioso per chi sbaglia.

 

 


La pecora smarrita e ritrovata (Lc 15, 4-7)

 

La prima parabola è così formulata: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta». La narrazione si ispira quasi certamente alla immagine biblica del Buon Pastore che si prende cura del suo popolo (cf. Is 40,1; Ez 34; Sal 23). Dal punto di vista didattico Gesù mette con le spalle al muro i suoi interlocutori ancor prima delle riflessioni finali. E in fatti introduce la parabola con una domanda retorica tipica dello stile di Luca: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?» Va da sé che ognuno non avrebbe potuto che dare la sola risposta possibile: lasciare le novantanove nel deserto e andare in cerca di quella perduta finché non l’ha ritrovata!

 

La parabola contiene il paradosso che sta proprio nel comportamento del pastore, il quale preferisce mettere a repentaglio tutto il gregge piuttosto che non portare nell’ovile anche una sola pecora. La sproporzione tra il numero novantanove e il numero uno mette in risalto proprio l'interesse del pastore per la singola pecora. In questo contesto lasciare le novantanove nel deserto non deve essere valutato come imprudenza o scarso interesse.

Per Luca trattasi di un elemento narrativo che serve a evidenziare la condotta premurosa del pastore a favore della pecora perduta. Merita notare che il binomio perduto/ritrovato attraversa tutto questo capitolo 15 del terzo vangelo. Proprio per questo l’insegnamento del Maestro è implicito, ma chiarissimo: le altre novantanove non sono vere pecore del gregge se non capiscono la sollecitudine del pastore anche per una sola pecora che si era smarrita.

 

Ma Luca va oltre e introduce il tema della festa e della gioia; nota infatti che, trovata la pecora smarrita il pastore se la mette sulle spalle e poi invita amici e conoscenti a rallegrarsi con lui. E l’evangelista chiosa: «Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione». Questo versetto è l'applicazione della parabola.

Dal racconto metaforico Luca passa al suo vero significato. La pecora perduta è il peccatore che si converte. La festa di Dio non è tanto per la ricerca del peccatore quanto per la sua conversione.
La sua profonda motivazione risiede in un amore che non può permettersi di abbandonare, di lasciar perdere, di non cercare chi è perduto, perché la sua gioia sta nel ritrovare e recuperare. 

Sottolineando la gioia per la conversione del peccatore, Luca fa della parabola una rivelazione della bontà salvifica di Dio. Con il suo comportamento Gesù si adegua alla misericordia del Padre manifestando ai peccatori la sua. San Gregorio Magno dirà: «Pose la pecora sulle sue spalle, poiché assumendo la natura umana egli si caricò anche i nostri peccati» (S. Gregorio Magno, Homiliae in Evangelia 2,14,3).

 

Questa parabola, oltre allo sfondo veterotestamentario ha anche un parallelo in Matteo (18, 12-24), la cui prospettiva, però, è molto differente. Matteo non inserisce la parabola in una polemica con i farisei, ma all’interno di una regola di comportamento per la comunità. Non insiste particolarmente sulla gioia del ritrovamento, ma sulla ricerca da parte del pastore. Così il punto di vista di Matteo si chiarisce: un invito alla comunità ecclesiale, e in particolare ai suoi responsabili, perché vadano alla ricerca degli smarriti, imitando in questo il Signore Gesù. Luca, invece, come già abbiamo detto, racconta la gioia di Dio nell’aver ritrovato la pecora smarrita.
 

 

La dramma perduta (Lc 15, 8-10)

 

Lo schema della seconda parabola è lo stesso di quello del pastore e della pecora: «Quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta».

Anche qui la domanda è retorica. Va da sé che se una donna ha dieci dramme e ne perde una la cosa più importante e ovvia è quella di mettersi a cercarla finché non l’abbia trovata.
Con tre verbi: accendere, scopare, cercare viene sottolineato lo sforzo della ricerca della moneta perduta. E quando finalmente l’ha trovata prova così tanta gioia che non può non chiamare le sue vicine e amiche per invitarle a fare festa e gioire con lei.


Anche in questa parabola ciò che balza immediatamente agli occhi non è tanto il ritrovamento della moneta, il cui valore è sì importante ma non rilevantissimo! Il punto saliente della parabola è proprio l’esultanza indicibile per il ritrovamento della moneta. Ed è proprio questo che la parabola intende rilevare: «Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». In cielo si gode per un peccatore che si converte e si fa festa con la stessa gioia che la donna ha provato per il ritrovamento della sua moneta. È la gioia messianica per la conversione del peccatore l’obiettivo didattico del Giovane Rabbi.

 

Con queste due parabole l’evangelista vuole presentare la misericordia sovrabbondante di Dio che manifesta la sua potenza non condannando ma perdonando. Similmente tutta l’opera di Gesù verrà considerata in questa prospettiva come manifestazione dell’infinito amore misericordioso di Dio. Ma vi è un altro aspetto che attira la nostra attenzione e riempie il cuore di gioia: la bontà misericordiosa del nostro Dio non è destinata a tutti in modo generico, ma raggiunge ciascuno personalmente. Ognuno è pensato, cercato, amato fosse anche il peccatore più incallito; ma mai condannato e sempre e solo accolto con amore e con gioia. Ezechiele aveva affermato che Dio non vuole la morte del malvagio, ma «piuttosto che desista dalla sua condotta e viva» (18,23; 33,11).

 

Il Padre e i due figli (Lc 15, 11-32)

 

Da qualunque angolatura si consideri la parabola del Padre e dei due figli ci si accorge che al centro c’è sempre la figura del padre che dà unità all’intera narrazione. Il punto su cui la parabola concentra l’attenzione è come Dio si pone di fronte ai due figli – il peccatore e il giusto – e come i due figli si pongono davanti a Lui. In ambedue i casi, c’è un netto contrasto; qui sta la novità della teologia di Gesù. È in gioco il vecchio e il nuovo, il vino e gli otri, non c’è spazio per alcun rattoppo.

 

L’attenzione, dunque, indugia sulla figura del padre che non riceve altra gioia più grande che quella di essere capito come padre ricco di misericordia. Gesù, attraverso questo insegnamento, presenta il vero volto di Dio che non condanna e non castiga, né vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva. Misericordia è il nome di Dio, e Padre è il suo volto.


Secondo la parabola evangelica "un uomo aveva due figli" che erano totalmente incapaci di riconoscere e accettare l’amore del padre. Uno se ne andò lontano; l'altro era talmente estraneo al suo sentimento da ritenersi addirittura migliore del padre grazie al dovere compiuto. Uno ha provato a sostituire il padre con il proprio piacere; l’altro non ha capito l’amore e il perdono del padre.

Nessuno dei due conosceva davvero il proprio padre!

Il vero volto di Dio è la misericordia e nessuno dei due figli lo aveva capito; entrambi hanno agito per calcolo.

 

Il figlio minore si sentiva oppresso e decise di abbandonare la casa paterna in cerca di libertà che non trovò. Lontano da suo padre si vide costretto a servire uno degli abitanti del luogo che lo mandò nel campo a pascolare i porci.


Nella sua vicenda del figlio minore c’è la descrizione del disagio del peccatore che si accorge quanto è umiliante e vuota la vita lontano da Dio. Fu questo è il peccato del figlio minore: la diffidenza nei confronti del padre, e la pretesa di costruire da solo la propria vita. La decisione del ritorno avvenne quando nel suo cuore riaffiorò la nostalgia del padre e della casa. Quando si accorse che aveva cercato una libertà lontana dall’amore.

Forse non si può proprio dire che il figlio sia ritornato a casa per amore del padre o per il pentimento del male commesso, e neppure per la nostalgia di casa. Non tornò per amore; tornò per fame "mentre i salariati di mio padre, hanno pane in abbondanza"... Non perché era pentito, ma per una situazione di indigenza decise di a fare ritorno a casa. «Trattami come un servo», disse al padre. Questa fu l’ultima dimostrazione del suo errore, perché non aveva capito che il padre non l’avrebbe mai ammesso al suo servizio, ma accolto come figlio. Infatti gli spalancò le braccia e dispose che si facesse festa.

 

Il figlio maggiore, anziché godere della gioia del padre, ne prova irritazione. La gioiosa accoglienza riservata al fratello minore gli dà l’amara sensazione che la sua fedeltà di rimanere in casa sia del tutto sprecata. Secondo criteri di stretta legalità, il figlio maggiore forse non ha avuto tutti i torti. Ma con la sua grettezza egli dimostrò di non avere cuore, di essere insensibile persino ai vincoli familiari, insomma di non saper amare né di saper riconoscere l'amore di cui era circondato.

Il peccato del figlio maggiore è costituito dal fatto che egli non ha saputo sintonizzarsi con i sentimenti di amore e di misericordia del Padre. Non aveva mai colto la forza del suo amore, la grandezza e la gratuità di quell'amore che, perdonando, fa nuova ogni creatura. In realtà il figlio maggiore è stato figlio solo all’apparenza fedele, ma in verità non si è mai sentito figlio! Anche se non è fug­gito da casa, egli con il cuore non è mai stato in casa perché non pensava e non amava come suo padre.

Considerò il Padre come padrone e se stesso non come figlio ma come servo. È vissuto con lo spirito dello schiavo. Non ha scoperto né il Padre, né il suo amore. È sempre stato con lui, ma non ne ha assimilato il cuore. Né il segno e la grandezza della vera libertà. Nel suo cuore non c'era amore.

Il figlio maggiore si è lasciato convincere? È entrato in casa a far festa? Non lo sappiamo. La conversione del giusto è, a volte, più difficile di quella del peccatore.

 

Le tre scene ripetono la stessa sequenza: la perdita, la ricerca e il ritrovamento. La coppia perdere-trovare ricorre ben otto volte nel testo. Sono sostantivi che indicano il cammino di allontanamento e di riavvicinamento alla fede e quindi a Dio.

 ─    Il primo passo segna un momento di lacrime. La "perdita" di qualcosa di molto caro segna sempre amaramente chi lo perde, ma più drammatica è la perdita di una persona che si è profondamente amata. Qualunque sia il nome dato, il peccato è sempre una perdita. È l'allontanamento volontario della persona da Dio. 

    Il secondo momento descrive l'atteggiamento di chi ha perso l'oggetto del suo amore. Il pastore va alla ricerca della pecora perduta. La donna cerca la sua moneta. E il padre esce di casa due volte: per andare a incontrare il figlio che torna a casa e per parlare con l’altro figlio che non vuole entrare. Dio è colui che cerca chi è perduto. 

   Il terzo passo è il ritrovamento della pecora e della moneta e l’incontro del figlio che era perduto ed è stato ritrovato. Questo incontro rappresenta il ripristino dell'armonia. È come tornare in paradiso. In caso di smarrimento di animali o cose è la persona che cerca. Quando si tratta di persone, sono i due che devono incamminarsi l’uno verso l’altro per riunirsi.

 
C
ari Amici,

 

In questa pagina evangelica Gesù non ha voluto farci una lezione su Dio misericordioso, ma ce lo ha reso visibile "accogliendo i peccatori e sedendo a mensa con loro". Ce lo ha reso sperimentabile facendoci gustare la gioia del sentirci cercati quando ci siamo smarriti, del sentirci amati quando noi stessi non ci amiamo più. Gesù non ha parlato di Dio: ce lo ha mostrato; infatti è Lui la Parola di Dio. Gesù ha narrato Dio vivendo la sua storia che è condivisione con la storia di tutti gli uomini. Con Gesù si rivela pienamente la misericordia divina che ci salva. Gesù è la misericordia divina incarnata.

 

Sono esperienze che si fanno ogni giorno, quando la debolezza del nostro credere ci porta a smarrirci in tanti dedali di pensieri ed azioni che non hanno nulla a che vedere con la fede e la morale cristiana. Ci porta a sentire il bisogno di essere cercati da qualcuno e con il quale intessere un dialogo di recupero. Ci porta a ritornare sui nostri passi soprattutto quando prendiamo coscienza dei nostri errori e comprendiamo che senza Dio nel cuore la nostra vita è vuota e non ha un senso di marcia ben preciso.

C'è solo da spalancare a nostra volta le braccia e perderci in quell'abbraccio di cui, in fondo, abbiamo nostalgia.
È l’abbraccio dell’amore misericordioso e gratuito per tutti, perché tutti gli uomini sono peccatori e hanno bisogno di essere salvati.

  
C’è tuttavia un ulteriore momento da considerare. Le tre parabole concludono facendo riferimento alla gioia. È vero che non si può banalizzare l'importanza drammatica della "perdita". Ma non si può sottovalutare la forza rinnovatrice della "gioia".

   «Vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione». Il riferimento al cielo è un eufemismo per evitare di pronunciare il nome di Dio. Il testo annuncia la gioia di Dio per la conversione del peccatore. Questo è il segno della sua gratuita paternità.

    «Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Se l'amore è la fonte della vita, la perdita si paragona alla morte. Ma l'incontro è un'esplosione di vita e di gioia. Questo è il segno della vera fraternità.

 
Questa pagina del Vangelo vuole essere un annun­cio di gioia: quando sperimentiamo di esserci "persi", affidiamoci a colui che è venuto a cercarci e confidiamo nel suo grande amore. Noi siamo preziosi ai suoi occhi. Gesù ci ha raccontato di un Dio che si mette sempre sulle nostre tracce, che ci cerca, che ci vuole venire a scovare nei nostri nascondigli.

È un Dio appassionato che non si cura del gregge rimasto incustodito, che non si accontenta di aspettare un ritorno del figlio, che non delega la ricerca della dracma, ma che si mette in marcia per colmare il vuoto insopportabile delle distanze.


È questo il motivo della gioia: la certezza di essere amati e cercati da Dio per partecipare alla pienezza della sua vita che è offerta in continuità a chi è in Dio. Solo così prenderemo parte per sempre alla festa del cielo e quindi anche alla gioia propria di Dio.

 

O Dio, che per la preghiera del tuo servo Mosè
non abbandonasti il popolo
ostinato nel rifiuto del tuo amore,
concedi alla tua Chiesa
per i meriti del tuo Figlio,
che intercede sempre per noi,
di far festa insieme agli angeli
anche per un solo peccatore che si converte.