La solitudine del prete

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Dopo i colloqui vaticani sul grave crimine dell'abuso di minori da parte di consacrati
abbiamo voluto riflettere sulla vita, l'identità e il minsitero dei presbiteri
che con fedeltà, generosità e impegno si fanno ogni giorno leali compagni di strada
come Gesù con i discepoli di Emmaus.
Ai nostri sacerdoti assicuriamo la nostra gratitudine per il loro "amoris officium"
Eleviamo a Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote la nostra preghiera per i nostri preti.
Manifestiamo a essi, con semplicità e sincerità, la nostra solidarità, la nostra fiducia, la nostra vicinanza.

 
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La vita del prete è da tempo sotto la lente di ingrandimento dei mezzi della comunicazione. Ma non per parlare del loro ministero e della bellezza della vita sacerdotale, quanto piuttosto per sbattere in prima pagina debolezze, peccati, errori. Non passa mese che da nord a sud, da est a ovest, passando per il centro, la cronaca non scovi “i peccati dei preti”.
Quando leggo notizie simili il primo pensiero che mi passa per la mente, quasi come “stimolo/risposta”, è un tema che ho dovuto affrontare e che affronto terapeuticamente molte volte: la solitudine del prete. In oltre 30 anni di psicoterapia ne ho incontrati tanti!
 
Mi pare di poter dire che l’oggi del prete sia segnato da un tarlo che gli rende la vita un po’ amara: quello di una indefinita sensazione di marginalità dal punto di vista sociale che gli procura dei grandi vuoti dentro che in non poche occasione sono origine di una sofferenza indicibile. Molte volte il prete si sente prigioniero di molti limiti umani, intellettuali, pastorali e soprattutto spirituali.
 
La solitudine del prete è messa in conto sin dal primo momento della sua chiamata. Ma l’entusiasmo delle primizie sacerdotali ha in sé il potere di contenere tale solitudine. Celebrazioni, giovani, attività pastorali e quant’altro assorbono l’entusiasmo e le energie soprattutto del giovane prete. Ma come ogni entusiasmo, anche quello del giovane sacerdote è fatalmente destinato a lasciare il campo alla reale realtà fatta di quotidianità.
 
E allora la solitudine diventa amara, acquisisce volti e sfumature assai differenti:
Solitudine da incomprensione. La gente non condivide, critica, osteggia, giudica. Non accetta il prete che fa il “profeta”, che è fin troppo “disturbatore” di un certo tran tran ecclesiale. Anche per questo certi preti sono parcheggiati ai margini dai loro Vescovi. Come non pensare ai tanti don Mazzolari o don Milani?
Solitudine da ingratitudine. Il prete non si sente apprezzato, stimato, considerato. È difficile che un prete si senta dire: Lei come sta? Quante volte mi son sentito dire da sacerdoti: mi sento estraneo al mio popolo e il mio popolo non mi considera uno di loro. Tutto questo è destinato a montare di intensità, nella misura in cui il sacerdote perde l’illusione della integrazione nel ministero e fa di conto con la distanza dall’ideale e dalla vocazione per la quale si è impegnato e ha offerto la vita.
Solitudine da malevolenza. Il prete si sente contestato perché prete. Il suo ministero pastorale ritenuto inutile. Che il prete ci sia o non ci sia poco cambia.
Solitudine pastorale. Il prete percepisce che la comunità parrocchiale rimane distaccata e indifferente verso quanto egli testimonia e annuncia. Sempre più spesso il sacerdote è considerato con un funzionario e la parrocchia come una stazione di servizio. La nostra è una società ormai post-cristiana; ma dal lato pratico, sia la Chiesa sia i fedeli continuano a comportarsi come se ci fosse ancora una cultura totalmente cristiana. Tuttavia la ricerca del prete sembra essere più in funzione dei servizi richiesti che della partecipazione ecclesiale in senso pieno. L’importante è che il prete distribuisca i servizi che gli si chiedono: messe, funerali, matrimoni, battesimi; il tutto possibilmente come da richiesta più per soddisfare i bisogni dell’apparenza che quelli della fede. In certi momenti della vita si ha bisogno del prete. Perché il sacro rassicura.
 
Ma assieme a questa solitudine spesso causata “dall’ambiente” e da chi lo frequenta, una gran brutta solitudine è la di solitudine ecclesiale che ha radici nei rapporti con l’autorità ecclesiastica e con i confratelli sacerdoti. Si tratta della mancanza di comunione con i confratelli, con il prete della parrocchia vicina, con il Vescovo. E questa solitudine è peggiore poiché nasce in famiglia: la famiglia del presbiterio. E il prete si sente solo quando tra confratelli non si condividono obiettivi teologici, liturgici, canonici, pastorali. Il prete si sente solo e amareggiato quando il suo Vescovo si limita a dimostrargli una cordialità di facciata anziché partecipazione vera e interessamento paterno.
Si sente solo il prete quando percepisce che il proprio Vescovo lo ha mandato in tre o quattro piccole parrocchie, magari abbarbicate in tre o quattro paesini di montagna, lontano dagli affetti più cari, con il solo scopo di “tappare un buco e non avere problemi”. Ma mai dal Vescovo si sente dire: “Come stai? Come ti vanno le cose? Hai di che vivere? Ti trovi bene dove ti ho mandato? Hai qualche difficoltà”.
 
In queste situazioni, ovviamente parziali e solo appena elencate, il prete può cadere in un senso di solitudine davvero amaro. E per rimontare, per sentirsi vivo, per sentirsi uomo si pone sulle strade degli uomini, e per dirla con papa Francesco può imboccare la via della mondanità. Cerca qualcuno con cui parlare, con cui confidarsi, a cui narrare la propria vita. Il prete, come ogni uomo avverte il bisogno di relazioni vere, di confronto, di dialogo e di sostegno sincero, trasparente, fraterno. E non c’è da stupirsi se prendono il sopravvento le esigenze di un prete che nasce pur sempre uomo. 
E allora quella affettività così poco educata in seminario, quella sessualità così malevolmente censurata emergono con una prepotenza a cui il prete non è stato bene educato.
La dimensione della sua umanità, senza la quale “la formazione sacerdotale sarebbe priva del suo necessario fondamento” (PdV 43), spesso censurata o sottovalutata nella educazione seminaristica, scoppia con una forza che spaventa, disorienta, scombussola.
Si badi bene: non è questa una ricerca di giustificazioni quanto, piuttosto una lettura che spero obiettiva e che, comunque, ho ritrovato e ritrovo in molti sacerdoti incontrati in situazione psicoterapeutica.
 
Ma c’è da chiedersi: chi ha vicino il prete in quei momenti? Nessuno (o quasi). E cerca dove può. E frequenta, oggi, i cosiddetti social network: messenger, chat, facebook, whatsapp … E cosa vi trova? Assolutamente di tutto. E quando scrivo tutto intendo proprio tutto! E chi vi trova? Il mondo del web. E qualcuno ha detto: “quod non est in Internet non est in mundo”!
 
E che dire della solitudine dei sacerdoti anziani? Si tratta di tanti santi e bravi sacerdoti che hanno dato la vita per i fedeli e sono ammalati, o immobili, o su una sedia a rotelle, spesso in case di riposo. Oppure che si ritrovi solo a esercitare il ministero, con qualche malanno di troppo, con un senso umano di stanchezza e di disillusione.
 
Come far fronte alla solitudine di sacerdoti che svolgono il loro ministero lontano dal centro diocesi, che si sentono dimenticati dal loro Pastore che ha sempre moltissime cose da fare meno che la prioritaria: preoccuparsi dei suoi sacerdoti. Alcuni atteggiamenti di facciata di chi dovrebbe essere padre, fratello e amico creano sofferenza e spesso isolamento.
Ed è triste che proprio i vescovi non comprendano di aver bisogno dell’amore dei propri sacerdoti. Inoltre anche il più bravo dei Vescovi non potrebbe fare assolutamente nulla se non fosse affiancato dai suoi preti che non sono solo pedine da spostare ogni nove anni da una parrocchia all’altra per un “legittimo e naturale avvicendamento”, ma che vorrebbero essere nel frattempo considerati, cercati, orientati, amati per quello che sono.
 
Infine, la grande sfida degli affetti. Si parla e si scrive tanto dei preti che vengono meno al loro impegno e promessa di fedeltà e di celibato. Nessuno nasconde la difficoltà di vivere casti in un mondo che banalizza la castità. E' da dire, onestamente, che sono un numero considerevole i sacerdoti che hanno perso il valore del celibato e che ritengono che dopo il loro servizio sacerdotale, possano decidere arbitrariamente della loro vita personale, della loro affettività, della loro sessualità. Sono circa 40 in tutta Italia i sacerdoti che ogni anno abbandonano il ministero sacerdotale per differenti motivi.
Non v’è dubbio che quello della affettività/sessualità appare essere un campo minato soprattutto alla luce di taluni soggettivi casi di autentica patologia come la pedofilia. Anche se va detto subito che la pedofilia è una autentica patologia! Vi sono rischi e atteggiamenti soggettivamente sbagliati, azioni soggettivamente mostruose; un solo caso di pedofilia è inaccettabile soprattutto se compiuto da un sacerdote.
 
Io non posso dimenticarmi mai di premettere una domanda prima di qualsiasi altro pensiero: cosa è stato fatto per lui perché non arrivasse a tanto?  I giornali e i mezzi della comunicazione fanno presto a sollevare scandali e a muovere giudizi. Ma la madre Chiesa quanto è stata madre per questi figli?
Oh sia chiaro: nessuna giustificazione per l’errore! Nessuna giustificazione per i delitti commessi soprattutto nei confronti di minori indifesi. Ma non posso omettere la domanda di fondo: “Quanto è stato amato quel prete? Quanto è stato aiutato?”.
Ripeto non ci sono giustificazioni di nessun genere. Ma prima, i confratelli dove erano? Il Vescovo dove era? Forse qualche freno allo sbandamento del dissoluto vi sarebbe potuto essere.
 
Ma pur in tutto questo contesto sono certo in assoluto che la maggior parte dei sacerdoti è disposta a regalare a Cristo Sommo Sacerdote la loro esperienza della solitudine amara e di quella ricca di pace; disposti a lasciare che sia Lui ad abitarle entrambe per farne tempo di grazia. È questo il modo più vero per camminare nella solitudine e viverla come condizione di autentica generosità e libertà. Se ben orientata e incanalata la solitudine del prete risorsa di fecondità spirituale e apostolica a condizione di saperla integrare umanamente e spiritualmente come dimensione autentica della vita del prete. 
In questa prospettiva la solitudine del prete potrebbe essere incanalata come una prova di verità del rapporto con Cristo nell'essere e nel ministero, attraverso:
-         la preghiera, compresa come accoglienza e ascolto del Cristo;
-         la riflessione pastorale per ritrovare la verità del ministero e il senso della libertà interiore;
-         la ricerca teologica per lo sviluppo spirituale e la possibilità dell'evangelizzazione;
-         il dono del corpo nel silenzio del celibato per un'autentica educazione sempre da riprendere per una miglior fecondità pastorale. 
 
L'esperienza della solitudine è per il prete apertura all'Altro assoluto che il Cristo rappresenta; è il mezzo per non fuggire da se stessi e per entrare in un rapporto di verità con il Verbo incarnato; è il modo per affinare la disponibilità ai fratelli cui la Chiesa lo manda.
E’ scuola di mistica e di ascetica.
 
Sosterrà il prete nella sua solitudine la consapevolezza che egli è un uomo di solitudine in ragione del suo ministero. E' necessario non negare affatto questa realtà.
In questo contesto e così intesa la solitudine per il prete non diventerà una prova corrosiva e distruttrice del suo essere e del suo ministero.
 
Sosterrà il prete nella sua solitudine:
-         la cordialità non di facciata della sua gente;
-         l’accoglierlo non quale distributore di servizi, ma quale “uomo di Dio” e dei divini misteri;
-         stimarlo quale compagno di viaggio che ha “abbandonato le reti” per seguire Gesù e farsi servo di coloro ai quali la Provvidenza lo ha inviato;
-         la preghiera fatta per lui perché sia davvero un alter Christus.
 
Nessuno sarà mai veramente solo, se riconoscerà Gesù accanto a sé!
 
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Preghiera del sacerdote la domenica sera
Signore, stasera, sono solo.
A poco a poco, i rumori si sono spenti nella chiesa,
le persone se ne sono andate,
ed io sono rientrato in casa,
solo.
Ho incontrato la gente che tornava da passeggio.
Sono passato davanti al cinema che sfornava la sua porzione di folla.
Ho costeggiato le terrazze dei caffè, in cui i passanti,
stanchi, cercavano di prolungare la gioia di vivere una domenica di festa.
Ho urtato i bambini che giocavano sul marciapiede,
i bambini o Signore,
i bambini degli altri, che non saranno mai i miei.
Eccomi, Signore, solo.
Il silenzio mi incomoda,
la solitudine mi opprime.
Signore, ho un corpo fatto come gli altri,
braccia nuove per il lavoro,
un cuore riservato all'amore,
ma ti ho donato tutto.
È vero, tu ne avevi bisogno.
Io ti ho dato tutto ma è duro, o Signore.
È duro dare il proprio corpo: vorrebbe darsi ad altri.
È duro amare tutti e non serbare alcuno.
È duro stringere una mano senza volerla trattenere.
È duro far nascere un affetto, ma per donarlo a Te.
È duro non essere niente per sé per esser tutto per loro.
È duro essere come gli altri, fra gli altri, ed esser un'altra.
È duro dare sempre senza cercare di ricevere.
È duro andare incontro agli altri, senza che mai qualcuno ti venga incontro.
È duro soffrire per i peccati degli altri, senza poter rifiutare di accoglierli e portarli.
È duro ricevere i segreti, senza poterli condividere.
È duro sempre trascinare gli altri e non mai potere, anche solo un'istante, farsi trascinare.
È duro sostenere i deboli senza potersi appoggiare ad uno forte
È duro essere solo,
solo davanti a tutti,
Solo davanti al Mondo.
Solo davanti alla sofferenza,
alla morte,
al peccato.
Figlio, non sei solo,
io sono con te,
Sono te.
Perché avevo bisogno di un'umanità in più
per continuare la Mia Incarnazione e la Mia Redenzione.
Dall'eternità Io ti ho scelto,
ho bisogno di te.
Ho bisogno delle tue mani per continuare a benedire,
Ho bisogno delle tue labbra per continuare a parlare,
Ho bisogno del tuo corpo per continuare a soffrire,
Ho bisogno del tuo cuore per continuare ad amare,
Ho bisogno di te per continuare a salvare,
Resta con Me, Figlio mio.
Eccomi, Signore;
ecco il mio corpo,
ecco il mio cuore,
ecco la mia anima.
Concedimi d'essere tanto grande da raggiungere il Mondo,
tanto forte da poterlo portare,
tanto puro da abbracciarlo senza volerlo tenere.
Concedimi d'essere terreno d'incontro,
ma terreno di passaggio,
strada che non ferma a sé,
perché non vi è nulla di umano da cogliervi
che non conduca a te.
Signore, stasera, mentre tutto tace e nel mio cuore sento
duramente questo morso della solitudine,
mentre il mio corpo urla a lungo la sua fame di piacere,
mentre gli uomini mi divorano l'anima ed io mi sento incapace di saziarli,
mentre sulle mie spalle il mondo intero pesa con tutto il suo peso di miseria e di peccato,
io ti ripeto il mio sì, non in una risata, ma lentamente, lucidamente, umilmente.
Solo, o Signore davanti a te,
nella pace della sera.

 

 

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