Incontri con Gesù
Gesù incontra i discepoli di Emmaus

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Dal Vangelo secondo Luca (Lc 24, 13-35).

 

 Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Ed egli disse loro: “Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?”. Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: “Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?”. Domandò: “Che cosa?”. Gli risposero: “Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci  di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l’hanno visto”.

Ed egli disse loro: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e  lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”. E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”. Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

 

Quello dei discepoli di Emmaus è certamente uno fra i brani più suggestivi e, per certi versi, più aderente alla nostra realtà di persone in cammino, certamente con molte certezze, ma spesso vittime di dubbi, perplessità, interrogativi e desideri. Proviamo dunque a tentare una rilettura del testo cercando di attualizzare l’annuncio e al tempo stesso cogliendo gli elementi principali che favoriscono una comprensione, una interiorizzazione e quindi una profonda e autentica assimilazione del messaggio teologico che esso contiene.
 
 

Ambientazione, esegesi.

 
Riguardo al villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, luogo in cui è ambientato l’incontro di Gesù con due discepoli, poche indicazioni numeriche del Nuovo Testamento hanno dato origine ad interpretazioni tanto disparate come Lc 24,13. Nelle trascrizioni dei Vangeli è stato perfino scritto 160 stadi (=29 km) al posto di 60, perché la Emmaus biblica era stata identificata con una località a 29 km da Gerusalemme detta oggi Amwas. Ma siccome anche lo scrittore giudeo Giuseppe Flavio afferma che la distanza fra Emmaus e Gerusalemme è di 60 stadi (=13 km), confermando così l’indicazione biblica, la opinione più accreditata è attualmente che l’antica Emmaus si trova nella località in cui sorge il villaggio di el-Kubebe, a circa 13 km da Gerusalemme.
Il racconto dell’episodio di Emmaus appartiene solo alla tradizione lucana. Esso crea una tensione tra l’esperienza dei due discepoli che non riconoscono il viandante e la scienza del lettore moderno, il quale sa che il viandante è Gesù. I due discepoli sono due ex autòn - ci dice il greco -, due del gruppo dei  “privilegiati”; e, in un momento di crisi, di disgusto, se ne vanno. La Sacra Scrittura ci ha tramandato il nome di uno solo dei due viandanti, “Cleofa” (Lc 24, 18). Secondo racconti extra biblici l’altro si sarebbe chiamato Simone o Ammaone. Tutto si svolge durante un cammino, cioè nell’esperienza dell’itineranza, dell’andare verso un luogo.
L’evangelista Luca parla spesso di Gesù come “colui che fa cammino”, che è in cammino[1]. Il particolare che quando Gesù pone la domanda, i due si fermano e poi riprendono a camminare, rivela che viene data molta importanza a questa esperienza sotto la quale può essere vista la storia di ogni uomo. La vita umana è un dinamismo, va in avanti, è protesa verso una direzione e Dio viene incontro all’uomo per accompagnarlo e per camminare con lui.
Se esaminiamo tutte le parole della risposta dei due discepoli: “Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo”, anche nella loro struttura filologica, ci accorgiamo che i due stanno recitando il kérigma, stanno recitando le parole del Credo, sono tutte le parole con cui si annuncia Gesù di Nazareth. Paragonandole con i discorsi kérigmatici di Pietro (At 2; 3; 10) e di Paolo (At 13), vediamo che risuonano le medesime espressioni: “Gesù di Nazareth, profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e davanti al popolo” - è ciò che Pietro annuncerà solennemente a Gerusalemme, è l’annuncio di salvezza -, “e questo profeta potente in opere e in parole i sommi sacerdoti l’hanno tradito, i nostri prìncipi l’hanno consegnato alla morte e l’hanno ucciso”. Sono le parole del kérigma, che saranno pronunciate con un tono salvifico, proclamatorio nella Chiesa primitiva.
Ecco la situazione “comica” che Luca descrive: questi uomini annunciano il messaggio come se fosse una disgrazia, annunciano il messaggio di salvezza con parola triste. Questo skythropòi (v.17) che descrive la loro faccia è un termine che si ritrova anche in Mt 6, 16 dove Gesù dice: “quando digiunate non fate la faccia triste”, e la faccia dei due discepoli era una faccia da funerale. Luca gioca finemente con questi contrasti paradossali: quegli uomini hanno sulla bocca il kérigma, ma non lo capiscono come tale e quindi lo annunciano quasi fosse una disgrazia terribile, irreparabile[2].
Quando i discepoli di Emmaus affermano che “..con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo”, qui il kérigma, anche se in una forma più dubitativa – non è il oùtos egèrthe = veramente risorto - , contiene tutto il materiale: i tre giorni, le donne al sepolcro, gli angeli, l’annuncio che vive. Eppure viene detto come una cosa di cui non si capisce niente, una cosa che non doveva avvenire e che è una tragedia per tutti coloro che speravano in lui. É il Kérigma a metà, è l’annuncio a parole ma il cuore non c’è, anzi c’è un cuore di tristezza, di rassegnazione, di delusione che amareggia quelli che lo dicono e non convince quelli che lo ascoltano.
Essi attendevano un Messia politico, che avrebbe liberato Israele dal giogo di Roma, restaurando il regno di Davide in tutta la sua magnificenza. Questi discepoli non sono increduli che non hanno mai sentito parlare di Gesù. E neanche increduli che hanno, sì, sentito parlare di Gesù, ma non hanno accolto il suo messaggio. Essi sono credenti. L’hanno riconosciuto come “profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo”. Inoltre l’hanno compreso come colui “che avrebbe liberato Israele”. Ma questi uomini si sono smarriti nella loro fede, a causa della croce. Un salvatore crocifisso è per loro qualcosa di inconcepibile. Nel loro intimo non vengono a capo di questo fatto. Non credono alla risurrezione. Hanno sentito l’annunzio delle donne, ma non accettano questo messaggio. La realtà della croce li ha sconvolti da capo a piedi, tanto che lasciano già Gerusalemme e, delusi, abbandonano ogni speranza.
La sofferenza è sempre la pietra d’inciampo, il grande scandalo, ciò che fa tentennare gli uomini nella loro fede in Dio. Non sanno metterla d’accordo con la fede nella potenza ed amore di Dio. E così la sofferenza li porta all’illusione della fede della loro infanzia, alla delusione che la dura vita porta con sé, fino alla incredulità disincantata e senza speranze. La via dei discepoli di Emmaus, che conduce lontano da Gerusalemme, è la via che battono migliaia di uomini[3].
L’ignoto viandante offre ai due compagni di viaggio un’ampia trattazione delle profezie messianiche contenute nel Pentateuco (Mosè) e negli altri scritti (i Profeti) dell’Antico Testamento. Gesù si fa evangelizzatore e didàskalos, maestro: mette in opera tutte le sue qualità di esegeta della Scrittura, di catecheta e, quindi, compie l’opera di chiarimento di cui i due discepoli avevano bisogno.
Gesù spiega loro la Scrittura. E dalla Scrittura spiega il valore della sofferenza nel grande piano salvifico di Dio. “Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. La passione e la croce dell’unto di Jahvè corrisponde al piano misterioso di Dio. E questo piano di Dio traspare dalle Scritture.
Qui si dice espressamente che Mosè e tutti i profeti, che anzi “tutte le Scritture”, trattano del Messia. Da qui si vede che la vera esegesi è cristologica. Chi dunque spiega in senso cristocentrico l’Antico Testamento non fa in nessun modo violenza al testo, ma lo interpreta come lo ha interpretato il più grande di tutti gli esegeti. L’esegesi cristologica, il commento cristocentrico dell’Antico Testamento è fondato e giustificato da Gesù stesso. Una vera interpretazione della Bibbia non deve fermarsi al suono esterno delle parole chiudendosi così alla comprensione del più intimo mistero e del senso più profondo della Scrittura stessa. Nell’avvenimento di Emmaus la via che porta alla fede in Gesù risorto, viene individuata nella via della nuova interpretazione delle Scritture. É Cristo stesso che indica ai due discepoli (e quindi alla Chiesa) un nuovo principio esegetico ed una nuova interpretazione delle Scritture, che consiste nell’interpretazione cristologica dell’Antico Testamento.
La Chiesa primitiva non è giunta a scoprire il significato vero, cristologico, dell’Antico Testamento mediante la propria meditazione e speculazione, ma l’ha compreso da Cristo stesso. Tutto l’Antico Testamento serve di preparazione alla fede nel risorto.
L’accoglienza è un simbolo primario ed antichissimo dell’uomo che supera l’istintivo timore del viandante che bussa alla porta. Qui è espressa con parole meravigliose: “Resta con noi”, dicono i due a Gesù, non andartene, vogliamo stare insieme. La loro diffidenza iniziale verso lo sconosciuto si scioglie lentamente sino a diventare fraternità: vieni a casa mia, che tu sia mio ospite. In oriente l’ospitalità è uno dei pilastri del costume, è il modo di essere uomini veri: saper accogliere chiunque, a qualunque ora, in qualunque tempo, senza mai irritarsi, preparando subito tutto con gioia, è un preciso dovere dell’orientale. Ed è un simbolo che ci interpella, che interpella gli abitanti delle grandi città che, vivendo magari nello stesso caseggiato, con gli appartamenti sulle stesse scale, si ignorano per anni, non avvertono il bisogno di frequentarsi, di conoscersi, di accogliersi[4].
In questo brano del Vangelo di Luca si dice poi che “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro”: questa scena è satura di un’atmosfera liturgico - sacramentale. Le quattro espressioni: “prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” figurano anche nei racconti della benedizione dei pani e dell’ultima cena. Quando i primi cristiani le leggevano dovevano pensare subito alla cena e alla celebrazione eucaristica.
Notiamo che quando i discepoli si sono sciolti, resi di nuovo capaci di amicizia - prima stavano discutendo tra di loro, litigando, adesso sono riconciliati e si accorgono subito dell’invitare quell’uomo a cena – si siedono a tavola ed ecco che Gesù si manifesta. Si manifesta con il segno, già da essi conosciuto, della frazione del Pane. Gesù si mostra vicino a loro, con loro, presente. La parecipazione del medesimo pane è più dell’ospitalità, è la condivisione della mensa che rende veramente fratelli, è come una cerimonia di alleanza, di amicizia: metto in comunione con te il pane che è un mio bene. Luca, con la frase, “spezzò il pane” ha in mente l’Eucarestia, vuole sottolineare che Gesù, ormai risorto é vivo, si dona ai due manifestandosi nella carità perfetta dell’Eucarestia. Ma la condivisione è, di fatto, un simbolo umano e per questo Gesù l’ha scelto come simbolo eucaristico, come segno del dono della sua vita all’uomo.

Tanto dal gesto inimitabile della frazione del pane (Lc 24, 35), quanto dalla reverenza con cui viene pronunciata la benedizione, i due si rendono conto che quell’uomo non può essere che Gesù! Ma poiché adesso la fede in Cristo risorto è viva e consolidata nei loro cuori, la presenza visibile di lui non è più necessaria[5].

Alla spiegazione della Scrittura si aggiunge il mistero dello spezzare il pane, e ai due fatti si unisce la rivelazione, con la quale Cristo manifesta se stesso. L’uomo può studiare, riflettere, ricercare e pregare. Con tutto ciò è, in fondo, grazia di Dio, se Cristo gli si rivela. Senza questa automanifestazione del Signore, gli occhi restano chiusi. E solo quando il Signore si dà a conoscere, si compie lo stesso fenomeno dei discepoli di Emmaus. “Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”. La frazione del pane è comunione di mensa con Cristo. Solo colui che il Signore invita a tale comunione di mensa lo conosce veramente. L’apertura degli occhi è in opposizione al tema della chiusura degli occhi che erano “incapaci di riconoscerlo”, erano come accecati. Anche Maria di Magdala, in un primo momento, aveva scambiato Gesù per il custode del giardino. Come mai, pur conoscendo bene il suo volto, pur essendo suoi fedeli discepoli, non capivano che era Gesù? Gli occhi di Maria erano chiusi dalle lacrime, dal dolore, dalla ricerca sbagliata; i due di Emmaus sono accecati dall’aver perso ogni speranza, dal non aver compreso le parole di Dio contenute nella Scrittura. A un tratto “si aprirono i loro occhi e lo riconobbero”.
 

La manifestazione di Gesù, la sua presenza, scioglie ogni dubbio, chiarisce le cose fino in fondo. L’evangelizzatore Gesù non soltanto annuncia il kérigma, proclama il disegno di salvezza attualizzandolo con la sua persona, ma, ancora, riscalda il cuore dall’interno. Già prima che i discepoli di Emmaus lo riconoscessero, Gesù era in mezzo a loro e se ne percepiva già l’efficacia. Un fuoco misterioso esce da Cristo. Una espressione apocrifa di Gesù dice: “Io sono il fuoco; chi mi è vicino è vicino al fuoco”. L’unione con Cristo produce un cuore ardente. Mentre senza Gesù i cuori sono freddi e spenti.

L’uomo, immerso nella pesante quotidianità, non vede le meraviglie dell’amore di Dio che lo circondano, non sa leggere la Scrittura in modo retto, teme che il Dio di Gesù Cristo, di cui sente parlare, gli impedisca di essere felice, di vivere come intende vivere. Quando invece, nel suo cammino di ricerca faticosa, apre gli occhi, per la grazia del Risorto, allora scopre con stupore e con gioia che Dio gli è amico, gli è Padre, che Gesù gli è fratello, che la fede è chiave di vita veramente umana.

I due discepoli conoscevano le Scritture, ma non ne avevano colto il significato più profondo. Gesù gliele spiega, spiega il mistero dell’uomo, della storia, degli avvenimenti, delle vicende ed ecco che il loro cuore arde: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto…quando ci spiegava le Scritture?”. Il fuoco che brucia produce scuotimento, sconvolgimento interno, emozione forte; è l’esperienza che nasce dall’ascolto vero della Parola di Dio. Ora hanno capito che ogni pagina della Bibbia, dal primo all’ultimo Libro, contiene quella parola vivente che è Gesù morto e risorto. Ne consegue un insegnamento prezioso: è fondamentale conoscere la Scrittura per scoprire l’amore di Dio per l’uomo e la sua lunga storia d’amore per noi che si è dispiegata nella storia della salvezza.
L’effetto della conoscenza di Gesù nei discepoli lo si può toccare proprio con mano. Il cambiamento si compie a 180 gradi, dalla tristezza alla gioia, dalla disperazione alla speranza, dalla fuga verso la periferia alla corsa nel centro di tutti gli avvenimenti. Dal prostrato scoraggiamento sono passati alla fiducia gioiosa.

I discepoli di Emmaus, tornati a Gerusalemme nella stessa notte (Lc 24, 33) non trovarono più gli apostoli scettici e dubbiosi. Appena ritornano dagli Undici, nella sala della cena, vengono a sapere da questi che il Signore è apparso a Simone. I racconti reciproci affermano così lo stesso fatto decisivo: che il Signore è veramente risorto! Così essi confermarono vicendevolmente la propria fede nella risurrezione.

In tal modo il racconto dei discepoli di Emmaus è la descrizione della vita senza il Signore, dell’intervento del Signore e della nuova mutata vita con il Signore. Allo stupore per la tomba vuota, all’annunzio degli angeli sulla resurrezione, si aggiunge come vero compimento il Signore stesso, che si manifesta ai suoi, prima al solo Simone e ai due discepoli di Emmaus, ma poi a tutti gli Apostoli riuniti.[6]

Questo brano è stato scritto da Luca tenendo presente che lo si dovesse leggere nelle chiese. Luca vuol dire a tutti i cristiani che verranno: “Voi che siete magari pieni di nostalgia del non aver potuto conoscere il Cristo nella carne, ebbene Cristo voi lo incontrate ogni domenica, quando celebrate l’Eucarestia. Quando voi ascoltate la liturgia della parola, il vostro cuore deve ardere perché è Lui che spiega e proclama la parola; quando spezzate il Pane è Lui che incontrate”. Ogni Eucarestia è un’apparizione pasquale, è per eccellenza un’esperienza di fede, un incontro con Cristo.

Luca ci ha ripresentato la sua tesi fondamentale, secondo la quale il Cristo è l’ora, l’oggi; non è sepolto in un passato remoto e non è neppure colui che è lontano, che sarà annunciato solo dalle trombe del giudizio.

 

Attualizzazione
 

Nel giro di una settimana a Gerusalemme è capitato di tutto. Gesù è stato accolto in maniera trionfale, acclamato come un re; ha trasmesso il comandamento dell’amore; durante la cena per la pasqua ha rivelato il valore del servizio con la lavanda dei piedi, ha garantito la sua presenza reale spezzando un pane e versando del vino; è stato arrestato, processato, condannato a morte, trafitto su una croce, sepolto…E basta. Tutto è finito.

Nel giro di una settimana sono sfumati progetti, speranze e illusioni tessuti pazientemente in tre anni di sequela fedele e attenta. Tutte le cose che abbiamo costruito, per le quali ci siamo spesi, per le quali abbiamo sudato, lottato e pianto, per le quali abbiamo anche rischiato, ci siamo esposti, sono definitivamente sigillate ed oscurate dietro quella grande pietra rotolata contro l’entrata di quel sepolcro nuovo, scavato nella roccia. Sembra di sentirli: “…che delusione…e chi se l’aspettava…lasciamo perdere, andiamo via…Basta, torniamo a Emmaus!”. Stanno vivendo quel punto di crisi che è una delle prove normali per il cristiano.

Sono i discorsi di due persone che, dopo aver vissuto un’esperienza affascinante ed esaltante con Gesù, si ritrovano soli, abbandonati, sconfitti e decidono di abbandonare il “cuore” di questa vicenda per dirigersi verso il definitivo ritorno alla realtà di  prima, al quotidiano di ogni giorno. Essi vivono questo momento di crisi in maniera un po’ esemplare per tutta la comunità; lo vivono non rinnegando niente, ma andandosene per i fatti loro, per cose più concrete, più immediate, per affari quotidiani, come il coltivare il campo, il visitare amici; per cose, insomma, che danno soddisfazione.

Che cosa fa Gesù? Qual è la tattica di Gesù? Leggiamo attentamente: “Gesù in persona si accostò e camminava con loro”. È potente il simbolismo di queste brevissime annotazioni. Mentre essi si trovavano in una situazione di amarezza e di delusione, Gesù prende l’iniziativa e si avvicina, si mette a camminare al loro passo, per un bel po’ senza dir niente, si fa accettare come misterioso compagno di viaggio, discreto, non invadente, che non li obbliga ad abbassare il tono, a parlare sottovoce.

Continuano a parlare perché Gesù sembra amichevole e, quasi naturalmente, lo immettono nella conversazione. Ad un certo punto però Gesù fa una domanda: “Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?”. Avrebbe potuto intervenire iniziando dalla gloria di Dio, descrivendo la gloria di Dio venuto tra gli uomini, e in questo modo illuminarli in un istante e guarirli. Invece il metodo è un altro: è il metodo progressivo dello stimolo, della domanda, del far venire gradualmente fuori il problema.

Gesù aiuta i due ad aiutarsi; Gesù è sapiente pedagogo evangelizzatore, non li sconvolge, ma piuttosto fa in modo che essi prendano coscienza di ciò che stanno facendo e vivendo, che sciolgano i nodi interiori, oggettivandoli. La parola produce immediatamente l’emergere della situazione di fondo che è la tristezza.

É talmente forte la ferita che sentono dentro, la sensazione di essere stati ingannati, che essi sentono il bisogno di sfogarsi. D’altronde chiunque avrebbe convenuto con loro sull’assurdità della vicenda, quindi non esitano a raccontare ed esprimere tutta la loro delusione. E questo si coglie dai verbi che utilizzano: fu profeta grande…speravamo fosse lui a liberare Israele…I discepoli avevano i loro progetti e le loro speranze; certamente, anche sulla scia delle idee promosse dagli zeloti, ai quali era legato uno di loro, che ritenevano che la liberazione dovesse esprimersi con atti militari e tendere alla ricerca della prosperità economica e del benessere materiale. Invece Gesù non solo è condannato a morte, ma alla morte in croce, infamante, riservata ai malfattori. Questo non rientra nei loro progetti.

 Gesù si accosta ai due e domanda loro di che cosa stiano parlando. Lui lo sa, ma vuole che entrambi si manifestino a se stessi e, verbalizzando la loro tristezza e le speranze deluse, li aiuta a prendere coscienza del loro problema e del motivo del loro turbamento. Gesù, in qualche modo, costringe i due ad ammettere il divario tra le loro speranze ed il piano di Dio come si è concretizzato in Gesù; tra il loro intendere il Messia e la sua morte di croce. Nel Vangelo Gesù invita i due di Emmaus a ritornare alla vita, a quegli eventi che avevano causato la loro tristezza, aiutandoli a decifrare, nel tessuto misterioso dell’esistenza umana, il filo rosso di un progetto divino.

Il mistero e la gloria del Risorto non è evidente agli occhi del corpo. Si può vedere Cristo eppure non vederlo. Per i cuori increduli Gesù rimane uno sconosciuto. Solo la “frazione del pane” fa splendere improvvisamente nelle loro menti il pensiero: Lo sconosciuto… è Gesù! Dal racconto lucano non è possibile dedurre con sicurezza se in Emmaus abbia avuto luogo una celebrazione eucaristica vespertina. Ma poichè in questo testo si trovano le parole usate nelle celebrazioni eucaristiche primitive, esso deve averne necessariamente evocato il ricordo.

Il racconto dell’episodio di Emmaus, profondo e trasparente, si svolge su due piani e cioè nella dimensione storica come in quella liturgica. Pur testimoniando un fatto storico, esso proclama che nell’annuncio e nella spiegazione delle parole come nella celebrazione eucaristica il Kyrios risorto vive oggi e sempre in seno alla comunità di salvezza. Nella storia di Emmaus si attualizza anche la fede delle comunità cristiane primitive nella presenza del Signore in mezzo a loro sino alla fine dei tempi. Da questo racconto la cristianità di tutti i secoli ha ricavato un motivo di consolazione profonda, poiché il Signore risorto è il mistero inviolabile della sua vita[7].

Sembrava una cena qualsiasi, o forse la cena era un pretesto per continuare una conversazione interessante, e invece ad un certo punto le parole lasciano il posto ai segni, ed i segni diventano memoria drammatica di un gesto misterioso, di un fatto incancellabile dalla loro mente (anche se forse non ne erano stati testimoni oculari) e che aveva in realtà cambiato la loro vita, ma senza ancora rendersi conto fino a che punto.

 Quei quattro verbi, prendere – benedire –spezzare – dare sono i verbi dell’Ultima Cena di Gesù coi suoi discepoli, sono i verbi che profetizzano la sua passione, quella passione culminante nella morte del Maestro che i due di Emmaus non potevano accettare. Proprio per questo erano tristi e delusi. Ma ora l’atteggiamento interiore è diverso: lo sguardo degli occhi è illuminato dalle parole di Gesù, dalla catechesi loro precedentemente impartita che ora è resa ancor più chiara da segni inequivocabili, e può andare oltre l’immagine per attingere la realtà, la verità delle cose. Quei quattro verbi sono anche i verbi della vita, che stanno a dirne il senso profondo, la verità genuina.

La vita (qui simboleggiata dal pane) è dono procurato da altri, è come un ricevere qualcosa da un altro (“prese il pane”), è anzitutto rendimento di grazie, consapevolezza grata di una benevolenza immeritata (“disse la benedizione”). E allora, se la vita è dono ricevuto deve restare tale, non può diventare diritto, proprietà privata, possesso geloso…, ma può e deve essere dono per tutti (“lo diede loro”), e diventare dono per  gli altri vuol dire inevitabilmente non mirare ai propri interessi, servire il prossimo, lavargli i piedi, fino al punto di dare la vita, di spezzarsi per gli altri (“lo spezzò”).

L’Eucarestia è la chiave di svolta di questi due uomini. Quando due persone si amano si parlano anche con un solo sguardo, basta un segno, la comunicazione è immediata. Di colpo balzano in piedi, lasciano la cena a metà e corrono verso Gerusalemme. Quel Gesù che fu profeta, che speravano liberasse Israele, che è stato ucciso in croce era apparso loro, aveva camminato con loro e aveva spezzato per loro il pane.

Ecco l’insegnamento per noi oggi: balzare in piedi, lasciare la mensa, correre nel buio per gridare a tutti: “Il Signore è veramente risorto! Noi l’abbiamo visto”.

Gesù ha acceso il loro cuore ed essi non riescono più a contenere l’ardore: sentono il bisogno di comunicarlo agli altri. É fonte di commozione e di responsabilità sapere che Gesù chiede la nostra collaborazione per raggiungere gli altri uomini.

Il racconto di Luca dei due pellegrini di Emmaus culmina con una preghiera: “Resta con noi Signore, perché si fa sera e il giorno già volge al declino” (Lc 24, 29). É stato detto che quella di Emmaus è la più bella preghiera mai pregata da cuore umano. Dice il desiderio di Dio e il bisogno della sua presenza, ma assieme confessa anche paura, la paura della solitudine, della sera, del buio del non senso, del giorno che sparisce inghiottito dalla notte; il timore che la luce, la sapienza, l’amore e tutto ciò di vero e di bello che riempe la vita, sia anche così fragile ed effimero da sparire in un istante; l’angoscia che la vita stessa sia come un giorno che inizia e finisce, che viene e se ne va. E non resta più nulla.

E allora, proprio perché ciò non succeda, perché la notte non fagociti il giorno e la morte non soffochi la vita, “Resta con noi Signore”. Il cuore dei due di Emmaus era già stato toccato in profondità dalla parola del Maestro e il desiderio che rimanesse con loro era reale e forte. Avevano percepito che tutta la loro storia precedente, il loro vissuto stava trovando un senso in quella persona.

Ecco dove nasce la preghiera. Con una definizione data da uno studioso (R. Tonelli) si potrebbe dire che l’orazione è “l’atteggiamento esistenziale di chi vive il frammento di esistenza di cui è protagonista, proteso, con una speranza operosa, verso una ragione di senso che riconosce di non possedere”; la frase è un po’  contorta, ma dice l’anima della preghiera, il suo dinamismo segreto e vitale, la sua tensione inquieta verso qualcosa che l’orante ancora non possiede e che non possiede mai definitivamente: il senso, una ragione per vivere e per morire, per amare e soffrire, per cogliere la bellezza della vita e non soccombere dinanzi alle sue contraddizioni, per imparare a vedere al di là delle cose e dell’evidenza ingannevole.

Si prega per capire, per rispondere a questo bisogno assolutamente radicale dell’essere umano, poiché la fede sopporta e comporta d’essere compresa e scrutata. Certo, il credente scopre il mistero e ci si confronta, ma è proprio lo stare dinanzi a Dio che fa progressivamente cogliere la ragionevolezza del mistero e introduce lentamente in esso come in uno spazio di luce, di luce intensissima, così forte che occorre adattarvi piano piano lo sguardo, senza pretendere di capire subito tutto. Chi prega entra nello spazio del mistero, luminoso ed amico; chi non prega si ritrova a sbattere contro il muro dell’enigma, tenebroso ed ostile.

Pregare è espressione di intelligenza, di voglia e fiducia di capire, e al tempo stesso dice l’umiltà intelligente di chi ammette di non sapere.

Anzi, rivolgersi a Dio è l’unico modo di affrontare certe situazioni difficili ed intricate dell’esistenza umana se non si vuole cedere alla tentazione del non senso, pericolosa anticamera di esiti disperati e depressivi. In fondo chi prega entra nella logica di Dio, ne contempla la sapienza, ne condivide piano piano il pensiero. Per questo la preghiera aiuta l’intelligenza, offre alla mente criteri nuovi per capire la realtà, le spalanca davanti orizzonti inediti.

Il fatto della risurrezione di Gesù oggi è stato riscoperto e valorizzato dai teologi, dai liturgisti e dagli studiosi. Infatti la Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano Secondo, si incentra nel mistero pasquale, mistero che abbraccia la Passione, la morte e la Risurrezione di Cristo che sono il fondamento della vita e della speranza cristiana.

L’articolo 6 della Costituzione Liturgica descrive  la vita come una morte con Cristo ed una resurrezione con Lui stesso a vita nuova. Anche noi, come Gesù, risorgeremo nella sua gloria. Dice S. Paolo: “Per tutti Cristo è morto, affinché quelli che vivono, non vivano ormai per loro stessi, ma per Colui che per essi morì é risuscitò” (2 Cor 5, 14). “Se però soffriamo con Lui, saremo con Lui glorificati” (Rom 8, 17).

Se si vuole risorgere con Cristo, si deve morire con Lui. Morire con Cristo, significa accogliere il suo invito: “Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16, 24); significa rinunciare a se stesso, al mondo, alle passioni, al male; vuol dire non cercare le ricchezze ad ogni costo, né le vanità della superbia umana, e neanche i piaceri della carne; in poche parole, significa vivere integralmente e radicalmente il Vangelo.

Questo non deve scoraggiare, perché le difficoltà che si devono superare, i sacrifici che si devono sostenere per seguire Gesù nella difficile e scabrosa salita del Golgota, non importano quando si pensa che si sta camminando per la via che conduce alla gloria pasquale di Cristo.

Dice la Costituzione Lumen Gentium: “La Chiesa prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, annunziando la passione e la morte del Signore, fino a che Egli venga. Dalla virtù del Signore risuscitato trova forza per vincere con pazienza ed amore le sue interne ed esterne afflizioni é difficoltà, e per svelare al mondo con fedeltà, anche se non perfettamente, il mistero di Lui, fino a che alla fine dei tempi sarà manifestato nella pienezza della sua luce” (art.8).

 

Ogni cristiano “deve essere davanti al mondo un testimone della risurrezione e della vita del Signore Gesù ed un segno del Dio vero” (Cost. Lumen Gentium, c. 4). La capacità di offrire questa testimonianza si  può trovare nella S. Comunione; anche i due discepoli di Emmaus ritrovarono Cristo, e con Lui vigore e coraggio, nella frazione del pane. É nella celebrazione dell’Eucarestia che “viene ripresentata la vittoria (di Cristo) e il trionfo della sua morte” (Conc. Trid. sess. 13).

Dice Paolo VI nella sua enciclica Misterium Fidei: “Ogni giorno, come è desiderabile, i fedeli in gran numero partecipino attivamente al sacrificio della Messa, nutrendosi con cuore puro e santo della sacra Comunione…(Perché) l’Eucarestia è Dio con noi, e restaura i costumi, alimenta le virtù, consola gli afflitti, fortifica i deboli, e sollecita alla sua imitazione tutti quelli che si accostano a Lui…Non c’è niente di più soave sulla terra, niente di più efficace a percorrere le vie della santità”.

Giovanni Paolo II nell'enciclica Ecclesia de Eucharistia dice che la Chiesa vive del Cristo eucaristico, da Lui è nutrita, da Lui è illuminata. L’Eucaristia è mistero di fede, e insieme “mistero di luce”. Ogni volta che la Chiesa la celebra, i fedeli possono rivivere in qualche modo l’esperienza dei due discepoli di Emmaus: “si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”.  

 

Nell’insieme l’apparizione di Gesù ai due discepoli ci ricorda che l’uomo è un essere in cammino e bisognoso di significato; che in questo cammino è chiamato a riconoscere la Parola di Dio che lo incalza, lo interpella continuamente sulla direzione del suo viaggio per spiegargliene il senso; che la libertà e la felicità dell’uomo consiste nell’accogliere questa Parola, nel non rifiutarla, nell’aprire gli occhi e il cuore al disegno di Dio rivelatoci pienamente nel mistero del suo figlio Gesù morto e risorto per noi, vivo ed operante in mezzo a noi.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

FONTE:

 

§  Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna.

 

 

TESTI:

 

§  A. Lapple, Il messaggio dei Vangeli oggi. Manuale per lo studio e la predicazione dei Vangeli, Edizioni Paoline, Modena 19692.

 

§  J. Ratzinger, L’evangelizzazione in San Luca, Editrice Ancora, Milano 19825.

 

§  R. Gutzwiller, Meditazioni su Luca, Edizioni Paoline, Roma 19825.

 

§  Carlo Maria card. Martini, Ritrovare se stessi, Centro Ambrosiano Edizioni Piemme, 1996.

 

 



[1] A. Lapple, Il messaqggio dei Vangeli oggi. Manuale per lo studio e la predicazione dei Vangeli, ed. Paoline, Modena 19692, p.157.

[2] J. Ratzinger, L’ evangelizzatore in San Luca, Ed. Ancora, Milano 19825,  pp. 38 – 39.

[3] R. Gutzwiller,  Meditazioni su Luca, Edizioni Paoline, Roma 19825.

[4] Carlo Maria card. Martini, Ritrovare se stessi, Centro Ambrosiano Edizioni Piemme, 1996.

[5] Cfr. J. Ratzinger, L’evangelizzatore in San Luca, Ed. Ancora, Milano 19825, pp. 39 e 43.

[6] Cfr. R. Gutzwiller, Meditazioni su Luca, Edizioni Paoline, Roma 19825, p. 435.

[7] A. Lapple, Il messaggio dei Vangeli oggi. Manuale per lo studio e la predicazione dei Vangeli, Ed. Paoline, Modena 19692, p. 159.