I magnifici 7
Alla riscoperta dei Sacramenti
Il segreto della confessione

<< Torna indietro

 

 

Il sigillo sacramentale è, nella Chiesa cattolica, l'obbligo di non manifestare mai ciò che è conosciuto dalla confessione sacramentale.

 

Questo non è facilmente comprensibile quando il dibattito è molto carico di emozioni e quando c'è molta incomprensione sulla natura del sacramento della confessione nella Chiesa cattolica. Il canone 983 § 1 del Codice di diritto canonico dà una definizione più diretta del segreto della confessione impossibile: «Il sigillo sacramentale è inviolabile; pertanto non è assolutamente lecito ai confessori rendere noto anche solo in parte il penitente con parole o in qualunque altro modo e per qualsiasi causa»

 

La sua inviolabilità è tale che in nessun caso immaginabile potrebbe essere violata, né con la parola, né con la scrittura, né con il segno, né con riluttanza. L'assoliuta inviolabilità del sigillo sacramentale si fonda sulla legge divina e non ammette eccezioni. Il sacerdote confessante, agendo in persona Christi capitis, conosce i peccati del penitente "non come uomo, ma come Dio", secondo una nota espressione di san Tommaso d'Aquino. Per questo egli è chiamato a difendere il segreto del contenuto della Confessione, non solo per "fedeltà" al penitente, ma, ancor più, per rispetto della santità del sacramento.

 

Un sacerdote non può violare il segreto per salvare la propria vita, per proteggere il proprio buon nome, per salvare la vita di un altro o per aiutare il corso della giustizia. I sacerdoti che violano il segreto della confessione sono automaticamente scomunicati.

 

L'assoluta segretezza della confessione spiega perché le persone si sentono libere di dire cose in confessione che non direbbero da nessun'altra parte. Alcuni vedono la sua insistenza sulla santità del segreto come una conferma che la Chiesa non mette al primo posto la sicurezza e il benessere dei suoi figli. 

 

Nell’ascoltare l’accusa e nel prestare il perdono divino, il sacerdote confessore agisce in persona Christi: «il suo ministero è quello stesso di Cristo» (Ordo paenitentiae, n. 10). In quest’ottica, il confessore che svelasse i peccati del penitente, verrebbe meno a un impegno di fedeltà con Dio e con Cristo. La violazione del segreto di confessione è rottura di un rapporto di fiducia con Cristo; viene cioè violato un patto di fedeltà: quello che esiste tra Gesù Cristo e il suo ministro.

 

Quindi, per nessun motivo e in alcun modo, il confessore può tradire il penitente. Non può farlo né in modo diretto che si verifica qualora venga rivelato il peccato e chi l’ha commesso, oppure questa relazione possa essere facilmente stabilita. Né in modo indiretto, ossia quando per leggerezza o imprudenza, senza manifestare il nome del peccatore, si pongono le premesse cosicché altri possano sapere o sospettare qualcosa che cade sotto il sigillo sacramentale.

 

Inoltre, il confessore non deve neppure “ricordare-ciò-che-ha-ascoltato”, in quanto quello che ha udito non gli è stato narrato nella sua qualità di uomo, ma in quanto uomo-di-Dio. I santi confessori hanno tramandato insegnamenti preziosi al riguardo come, a esempio, quello di cacciare dalla mente con assoluta determinazione se ricordasse una specifica persona e il suo peccato affidato alla confessione.

 

Non v’è ragione alcuna che possa giustificare la violabilità di tale segreto: né il bene comune (sociale o spirituale), né il bene personale del penitente o del confessore. Ciò che è chiuso da sigillo non deve essere visto e conosciuto da altri. La Chiesa è Maestra severa al riguardo. A tal proposito il Codice di Diritto Canonico commina la pena gravissima della scomunica ipso facto al sacerdote che dovesse violare e tradire il segreto della confessione.

 

La legge della Chiesa proibisce sia la violazione diretta, sia quella indiretta.

Ho un personale ricordo che non mi ha mai abbandonato al riguardo. Nel mio piccolo paese natio è stata costruita una chiesetta di qualche pregio artistico dedicata a San Giovanni Nepomuceno. Egli fu il confessore della regina consorte del Re di Boemia. La mia insegnante, quando portò noi alunni a vistare la chiesina di San Giovanni (così è ancora chiamata!), ci raccontò la storia di san Giovanni Nepomuceno dal quale il re boemo pretese di sapere se la regina lo avesse tradito. San Giovanni Nepomuceno era il confessore della regina. Per aver custodito il segreto della confessione il Santo Confessore preferì subire il martirio piuttosto che cedere alle pressioni del Re Boemo.

 

Dal punto di vista meramente umana è da chiedersi: Chi mai farebbe ricorso al sacramento della riconciliazione sapendo che quanto detto in confessione potrebbe essere reso pubblico? Senza questo assoluto impegno di segretezza, chi sarebbe disposto a confessare propri peccati, a cercare il consiglio di un sacerdote e ricevere il perdono misericordioso di Dio?

 

Giovanni Paolo II nell’Allocuzione disse: «Considerino i fedeli che si accostano al sacramento della penitenza, che, chiamando in causa il sacerdote confessore, attaccano un uomo senza difesa: la divina istituzione e la legge della Chiesa lo obbligano infatti al totale silenzio usque ad sanguinis effusionem».

Fino all’effusione del sangue: a tale eroismo chiama e impegna il sacramento della confessione.

 


© Riproduzione Riservata