Benedetto XVI
e il Concilio Vaticano II

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Joseph Ratzinger si può ben definire “figlio del Concilio”. Egli lo visse dal momento dell’annuncio, il 25 gennaio 1959 e fino alla sua chiusura, il 7 dicembre 1965, come perito conciliare e membro di diverse commissioni. Inoltre egli fu consigliere del cardinale Joseph Frings che, ancora da Papa, definì come “un padre”. E per oltre cinquant’anni il teologo Joseph Ratzinger nei pensieri, nelle parole e nelle iniziative concrete continuò a dedicare ogni sua energia al Concilio Vaticano II. Con una costante: la Chiesa è di Cristo. Vive nel mondo come riflesso della Sua luce. Cresce nel mondo in forza della Sua grazia. Era questo il volto più intimo della Chiesa che il Concilio avrebbe dovuto riproporre al mondo, nel suo intento di aggiornamento. 

 

Per Joseph Ratinger il Concilio fu un evento di portata ecclesiale enorme dove la Chiesa si sarebbe dovuta riscoprire nella sua natura più profonda. In fondo i documenti principali del Concilio hanno guardato alle questioni cardine della Chiesa, ossia la Liturgia come sua radice frutto dell’iniziativa di Dio; poi la Parola di Dio con la Costituzione Dei Verbum, la Lumen Gentium sulla Chiesa, e infine la Gaudium et Spes che riflette sulla Chiesa nal mondo contemporaneo.  

 

Il leitmotiv di tutta la carriera teologica del Papa Benedetto XVI è stata l’ermeneutica del Concilio Vaticano II.  Non è fuori luogo affermare che al Concilio Vaticano II egli abbia dedicato la sua vita di ricercatore e di teologo.
Il 20 aprile 2005 disse: «Nell’accingermi al servizio che è proprio del successore di Pietro, voglio affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell’impegno di attuazione del Concilio Vaticano II, sulla scia dei miei predecessori e in fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa». 

 

 

A Bressanone, ricordando appunto i 30 anni dalla morte di Paolo VI, il Successore di Pietro ha richiamato quel periodo difficile. Non ha esitato a dire che “La Divina Provvidenza chiamò Giovanni Battista Montini dalla Cattedra di Milano a quella di Roma nel momento più delicato del Concilio - quando l'intuizione del beato Giovanni XXIII rischiava di non prendere forma. Come non ringraziare il Signore per la sua feconda e coraggiosa azione pastorale? A mano a mano che il nostro sguardo sul passato si fa più largo e consapevole, appare sempre più grande, quasi sovrumano, il merito di Paolo VI nel presiedere l'Assise conciliare, nel condurla felicemente a termine e nel governare la movimentata fase del post-Concilio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Merito sovrumano, l’ha definito Benedetto XVI quello di Paolo VI.

 

 

 

 

 

Come mai? Perché? In che modo “l'intuizione del beato Giovanni XXIII rischiava di non prendere forma”?.

 

 

 

 

 

 

Papa Benedetto, che al Concilio Vaticano II è stato presente dal 1962 al 1965 dando un notevole contributo come “esperto” e  consultore teologico del Cardinale Joseph Frings, Arcivescovo di Colonia, proprio nel primo anno del suo pontificato, in occasione degli auguri natalizi alla Curia Romana (22 dicembre 2005) tornò sulle questioni relative all’applicazione del Concilio. Le parole di Benedetto XVI possono ben far comprendere il merito sovrumano di Paolo VI non solo nel condurre felicemente a termine l’Assise conciliare, ma anche a governare l’immediata fase del dopo-Concilio.

 

 

 

 

 Ma ascoltiamo Benedetto XVI:

 

 

Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare?

Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?

Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione.


I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.

 

 

 

L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel 

 

discorso di conclusione del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865).

 

 

 

 

 

 

È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel 50 anniversario dell’apertura del Concilio papa Benedetto ha dichiarato: “Durante il Concilio vi era una tensione commovente nei confronti del comune compito di far risplendere la verità e la bellezza della fede nell’oggi del nostro tempo, senza sacrificarla alle esigenze del presente né tenerla legata al passato: nella fede risuona l’eterno presente di Dio, che trascende il tempo e tuttavia può essere accolto da noi solamente nel nostro irripetibile oggi. Perciò ritengo che la cosa più importante, specialmente in una ricorrenza significativa come l’attuale, sia ravvivare in tutta la Chiesa quella positiva tensione, quell’anelito a riannunciare Cristo all’uomo contemporaneo. Ma affinché questa spinta interiore alla nuova evangelizzazione non rimanga soltanto ideale e non pecchi di confusione, occorre che essa si appoggi ad una base concreta e precisa, e questa base sono i documenti del

 

 

Concilio Vaticano II, nei quali essa ha trovato espressione. Per questo ho più volte insistito sulla necessità di ritornare, per così dire, alla «lettera» del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II si trova in essi. Il riferimento ai documenti mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità. Il Concilio non ha escogitato nulla di nuovo come materia di fede, né ha voluto sostituire quanto è antico. Piuttosto si è preoccupato di far sì che la medesima fede continui ad essere vissuta nell’oggi, continui ad essere una fede viva in un mondo in cambiamento”.

Sessant'anni dopo l'inizio del Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio”.

 

 

 

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